Don Emilio entrava in aula e, d’incanto, s’interrompeva il chiacchiericcio consueto, quel rumore, chissà se davvero lieto, che è possibile avvertire quando si entra in tutte le aule del mondo. Puntava dritto verso la cattedra dove giungeva, prima di lui, la borsa di pelle nera, sbattuta sul tavolo, senza eccessiva grazia. Le cattedre, allora, erano sopraelevate, sicché era necessario salire almeno un gradino della pedana e, dunque, il gesto della deposizione della borsa imponeva uno sforzo supplementare.
Il prete indossava un pesante cappotto nero che ricopriva la talare. Tra il nero dell’abito e il rossiccio del volto non potevi non notare il bianco del colletto, sempre ben sistemato e in ordine, come si conviene. Alcune volte, d’inverno, don Emilio si tirava sulle spalle, a mo’ di mantellina, con il medesimo gesto che i sacerdoti compivano per sistemarsi il velo omerale durante l’antica benedizione vespertina, i lembi del cappotto, nel tentativo disperato di accrescere il caldo. Prima che cominciasse a parlare, scorreva via qualche minuto e l’aula piombava nella più impressionante assenza di suoni che si potesse immaginare.
“Oggi parleremo di Marx”, annunciò, senza alterare né il tono né il volume del suo dire.“Caspita, si entra in terreno minato”, fu l’unica cosa che, pericolosamente, mi azzardai a sussurrare, come un suggeritore d’arte, al mio compagno di banco. La fortuna quella volta mi salvò. Mi ritornò, infatti, subito in mente, e mi sarei volentieri morsicato la lingua, quanto accaduto qualche settimana prima. Don Emilio, colto in fallo un mio compagno, nella fila di centro, gli aveva intimato di alzarsi e, con il tono di sempre, “non ti metto nessuna nota”, gli aveva detto. “Sarebbe come attestare ufficialmente, con i crismi della legalità, di non saper tenere una classe. Farei una davvero pessima figura, con gli altri ma, prima di tutto, con me stesso. E io, questa soddisfazione, non te la voglio dare”. Quello s’era seduto, rosso in viso. Lo avremmo visto silente fino alla fine dell’anno. Fu in quell’occasione che mi si cominciò a delineare, prima opaca, poi sempre più chiara, la differenza che corre tra autoritarismo e autorevolezza. Don Emilio, di autorevolezza, ne aveva a vagonate. Ovviamente compresi chiaramente, con la sua spiegazione, sia il rapporto tra struttura e sovrastruttura che il concetto di plus-valore.
“Scontiamo un deficit di cultura civile, qui a Benevento. Certo, alcuni se la prendono con la chiesa che da noi, per un buon numero di secoli, ha governato la città. Ma dovremmo imparare a distinguere. E, se attentamente distingueremo, scopriremo che non è stata solo colpa della chiesa.” Allora è stato un prete a insegnarmi a distinguere, a discernere, a cogliere le differenze? Insomma a fare uso di quell’arma efficacissima che si chiama dialettica? O, per andare più indietro, a usare il dono più prezioso della modernità, ossia il dubbio? E’ stato davvero un prete. E che prete! “Buttate via quel libro inutile…” Don Emilio aveva anticipato una delle scene-cult di un film che, alcuni decenni dopo, avrebbe disegnato la figura del professore che tutti avrebbero voluto incontrare. “Forse con il Lamanna andrà meglio”, sentenziò. Ma, a ben ricordare – ora posso affermarlo con sicurezza – nemmeno quel manuale era il massimo. Eppure allora ci apparve come un’ancora di salvezza. Qualche giorno fa sono sceso nella biblioteca “grande” di casa e l’ho cercato. Invecchiato ma ancora integro.
L’ultima volta che ci siamo visti doveva essere il 1972. Camminavo lungo il corso Garibaldi, a Benevento, gettando ogni tanto uno sguardo distratto sulle vetrine. Di lì a poco, mi sarei trovato alla libreria delle Paoline. Sarei entrato di sicuro a spulciare, per informarmi sulle ultime pubblicazioni della Cittadella di Assisi. In quella libreria avevo comprato, durante il liceo, tanti testi, alcuni della collana “I maestri”: le opere poetiche di Foscolo, i Canti leopardiani, l’Adelchi del Manzoni, i Fioretti di San Francesco. Letture che avevano accompagnato la mia adolescenza che correva velocemente verso una giovinezza di certo più matura ma, per tanti aspetti, ancora confusa. Sull’ingresso della libreria ecco materializzarsi don Emilio. Nonostante il sole primaverile, nemmeno quella mattina aveva rinunciato al soprabito nero e alla sua borsa di pelle. Corsogli incontro, lo salutai con deferenza. Ma il timore era oramai acqua passata e i docenti del liceo li si poteva affrontare a viso aperto. Il grammo di paura che restava si stava trasformando in affetto. Dopo i consueti, spicci convenevoli, il prete professore mi chiese a cosa mi fossi iscritto. “A Napoli, alla Federico II, a filosofia”, risposi abbassando il suono della voce, come se, leggendo uno spartito, avessi trovato una forcina discendente, uno di quegli strani segni che ordinano agli esecutori di smorzare per gradi il suono. “A Filosofia?”, ribatté, con un’espressione chiarissima e trasparente, in cui avresti letto perplessità, sorpresa e, forse, compatimento. Presi coraggio e principiai a squadernargli il piano di studi e a raccontargli gli esami sostenuti, tra i quali quello di Letteratura latina, che, per me, aveva rappresentato un’autentica vagonata di autostima: un sudatissimo ventisette conquistato con il primo volume della celeberrima antologia di Arnaldi (da Plauto a Ovidio, passando per Terenzio, Catullo, Lucrezio e Virgilio) con il primo e il terzo libro del De officis, con tutta la storia della letteratura latina, da Livio Andronico e la sua Odusia fino a Rutilio Namanziano e, in più, con un saggio del professore ( D’Elia) sui rapporti tra il latino e le lingue romanze.
“ Ma forse io e te non ci siamo molto intesi”. Don Emilio bloccò il mio racconto, come a scusarsi per il suo giudizio su di me, sempre oscillante intorno al sette. “Sì, decisamente: non ci siamo intesi. Ma ora è tempo di andare a prenderci insieme un caffè.” Trovai squisito quel caffè offertomi dal mio ex professore. Ci stringemmo la mano. Allora non usava abbracciarsi né tantomeno baciarsi. Giusto il tempo per un ultimo sguardo, quel suo sguardo “venerando e terribile”, e profondamente ironico. Fu il nostro ultimo incontro. Continuai a seguire, da lontano, le sue idee, i suoi progetti, le sue vicende, la sua condivisione radicale, la sua morte.
Ora desidererei incontrarlo ancora una volta, per dirgli che no, che non aveva assolutamente nulla di cui scusarsi. Che, a quei tempi, di certo non avrei meritavo di più. Che non sempre i docenti hanno la forza e la possibilità di seguire le fisime e gli stati complicati dei loro studenti. Gli direi che è stato un professore “giusto”, nel senso platonico del termine. Perché ha risposto, nel migliore dei modi, alla chiamata. E, gli direi ancora che la buona riuscita dei suoi tantissimi alunni, preti o laici, è stata segnata proprio da quelle pratiche. E, infine, gli direi che gli ultimi cinque anni di docente di storia e di filosofia m’è capitato di farli, al Giannone, sulla cattedra del corso che era stato suo, in quei lontani, felici e tremendi, ora finiti per sempre. O ancora – e qui il cerchio si chiude – a dare una mano a quella scuola in cui i docenti, e tra essi don Emilio, mi offrirono le coordinate giuste per imparare a volare. O, “per attraversare il mare della vita” (diaplèusai tòn bìon, Platone, Fedone)
Amerigo Ciervo