Cari Confratelli,
anzitutto una parola di ringraziamento a Mons. Felice Accrocca che ha promosso questa iniziativa. Ho pensato d’introdurre questa due giorni su un tema molto sentito da tutti noi, ma non solo, prendendo spunto dalla Prima Lettera ai Corinzi. Come è noto, per spiegare la sua idea di Chiesa, Paolo attinge all’immagine del corpo umano, ben conosciuta nella letteratura del suo tempo. Al capitolo 12 egli la sviluppa anzitutto per mostrare come nella Chiesa sia necessario comporre i due principi, apparentemente opposti, dell’unità e della diversità. Il paragone è quindi facilmente intuibile: il corpo, pur essendo uno, è dotato di molte membra. Ciascuna di esse assolve a un compito specifico e insostituibile. La riflessione di Paolo non doveva essere stata elaborata a tavolino, ma verosimilmente era maturata in lui durante le sue numerose visite alle neonate comunità cristiane: ogni comunità porta con sé le tracce della propria storia, della geografia, dell’economia, della politica, etc. Ma come all’interno di ogni comunità ci sono persone dotate di carismi diversi (cfr. 1Cor 13), così anche le varie comunità con le proprie caratteristiche possono dirsi parte di una Chiesa universale. Nell’uso della metafora fisica per sviluppare il tema della relazione sempre precaria tra unità e diversità, Paolo è estremamente efficace anche se non sembra molto innovativo.
In realtà, a ben vedere, egli non si limita a paragonare la Chiesa al corpo umano con le sue diverse membra. A questo aspetto ne aggiunge un altro, che è specifico della Chiesa: il legame di carità che deve sussistere tra i credenti. Paolo spiega infatti che ci sono parti del corpo «che sembrano più deboli» (v. 22), che però vanno considerate ancor più necessarie; oppure ci sono parti «indecorose [che] sono trattate con maggiore decenza» (v. 23). Realisticamente bisogna ammettere che non tutte le membra hanno la stessa forza e nobiltà: la Chiesa di Corinto, ad esempio, era probabilmente più ricca ed esuberante di quella di Filippi. Tuttavia, Paolo punta sull’idea che il compito primario nella Chiesa sia quello di prendersi cura gli uni degli altri (v. 25). Non è interessato, dunque, solo al parallelo corpo-Chiesa, ma è piuttosto attento a sottolineare la dinamica della carità all’interno della Chiesa, soprattutto nei confronti dei soggetti o delle Chiese che sono più deboli (cfr. 2Cor 8,1-9,15).
Come non pensare, allora, al tema che approfondiremo in queste giornate? Le “Aree interne” – e lo dico per esperienza diretta, come figlio di queste terre e come pastore di una Chiesa “interna” prima dell’attuale incarico – non sono un minus rispetto agli altri territori. Rappresentano invece una ricchezza assoluta, se ben valorizzate e restituite alla loro dignità. Ora, purtroppo, facciamo i conti con diversi problemi che rendono difficile questa comprensione. Eppure, l’immagine del corpo ci sostiene nella riflessione. Se togliessimo i polmoni, con cosa respireremmo? Se cavassimo gli occhi, con cosa guarderemmo le meraviglie che impreziosiscono il Belpaese? E potremmo continuare… Ma c’è una domanda che è alla base di tutto: perché c’interessiamo al tema delle “Aree interne”?
L’attenzione delle comunità cristiane per questi territori non è un fenomeno estemporaneo, né tanto meno strumentale. Spesso le nostre comunità rappresentano per queste Aree, costrette a confrontarsi con dinamiche di marginalizzazione e di spopolamento, uno dei pochi punti di riferimento – talvolta l’unico – anche a livello sociale. È un’attenzione, dunque, che nasce dall’interno dell’esperienza ecclesiale, dall’attitudine al radicamento nei territori, dall’esigenza di coniugare sempre dimensione locale e apertura universale. E se, da un lato, le nostre comunità partecipano dei problemi e dei limiti strutturali che affliggono le “Aree interne”, allo stesso tempo si fanno carico dello sforzo di superare il fatalismo e la rassegnazione e di declinare l’annuncio del Vangelo in modi sempre più adeguati alla concretezza delle realtà in cui sono inserite.
Questo incontro, il primo con un coinvolgimento nazionale, è stato preceduto da una serie d’iniziative che hanno avuto proprio qui, nella metropolia di Benevento, il loro momento propulsore. Non è stato uno sviluppo casuale. Il dialogo e le interconnessioni tra le nostre comunità non sono un espediente tattico o meramente organizzativo. Rispondono invece a una logica di sinodalità che ha radici teologiche profonde.
Ritorna l’immagine del corpo utilizzata da Paolo. Ciò che l’Apostolo dice dei rapporti tra il corpo e le membra può illuminare anche le motivazioni che sono alla base del nostro incontro e i discorsi che ci accingiamo a fare. Nella Chiesa, infatti, non ci sono comunità di serie A e comunità di serie B e se ciascuna è chiamata a svolgere fino in fondo la propria missione, nessuna può pretendere di fare a meno dell’altra. Sussiste quindi una solidarietà profonda nelle situazioni positive come in quelle negative perché «se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui» (1Cor 12,26). È una solidarietà circolare, non unidirezionale, perché «a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune» (1Cor 12,7). Le nostre comunità sperimentano in modo sensibile, insieme alle difficoltà quotidiane e a vere e proprie emergenze, la ricchezza dei doni che lo Spirito suscita e che siamo chiamati a far fruttificare.
Senza incorrere in superficiali deduzionismi o scivolare in meccaniche trasposizioni, non si può tuttavia non notare come queste semplici riflessioni mutuate dalla Scrittura s’intreccino costruttivamente con i temi del dibattito sociale ed economico a proposito delle “Aree interne”. Forse anche per questa vitale sintonia le comunità cristiane si sono trovate a svolgere un ruolo di anticipazione e di sollecitazione rispetto alle istanze istituzionali e politiche. La capacità di fare rete tra realtà diverse, di valorizzare lo specifico delle risorse locali interagendo con il “centro” o con i poli di riferimento sul territorio in modo non assistenzialistico, sono filoni che ritroviamo in ogni analisi e progettazione d’intervento.
È dal 2012 che si è cominciato a costruire a livello governativo quella che è stata poi definita Strategia nazionale per le Aree interne a partire dall’impiego dei fondi strutturali europei, con l’obiettivo di sostenere una competitività territoriale sostenibile e contrastare il declino demografico. Che si tratti di una grande questione nazionale lo confermano alcuni numeri emblematici: le aree lontane dai poli di servizio essenziale – le aree interne, appunto – rappresentano il 60% del territorio italiano, il 52% dei Comuni e il 22% della popolazione. La Strategia nazionale prevede a livello locale gli “accordi di programma quadro”, per un totale di circa un miliardo e 200mila euro di stanziamenti: a fine luglio ne risultavano sottoscritti 62 su 72 con la prospettiva di completare il processo entro l’anno in corso, anche in virtù di una semplificazione delle procedure. È un percorso significativo, ma complesso e non privo di contraddizioni ai vari livelli. Molte speranze sono ora legate al Piano nazionale di ripresa e resilienza e ai provvedimenti a esso connessi. Ci sono deficit infrastrutturali – basti pensare al capitolo delle comunicazioni e della digitalizzazione – che richiedono interventi straordinari per essere colmati. Si tratta di una questione che non può richiamarmi quanto avviene nelle terre di mia provenienza dove i devastanti terremoti che si sono succeduti dal 2016 hanno ulteriormente messo in evidenza, soprattutto in alcune zone, la necessità di investimenti utili non solo alla ricostruzione in quanto tale ma ad un più facile ed agile accesso a quei borghi d’Italia che giustamente vengono segnalati come un grande e particolare valore per tutta la nostra nazione. D’altronde non si può immaginare una duratura ed equilibrata ripresa del Paese se oltre 13 milioni di abitanti si ritrovano in una condizione di marginalità territoriale che talvolta incide sullo stesso godimento dei diritti di cittadinanza. Ancora una volta appare in tutta chiarezza che il Paese non crescerà se non insieme. E la questione delle “Aree interne” – come la stessa pandemia ha fatto emergere soprattutto in alcuni frangenti – può rappresentare uno stimolo a ripensare i modelli del nostro vivere associato e comunitario non soltanto nelle zone direttamente interessate ma anche su un piano più generale.
Il cambiamento in atto, sollecitato anche dalla pandemia, può disegnare un nuovo modello di sviluppo in cui le “Aree interne” possono diventare il polmone del Paese. Di certo, ne guadagneremo in stili di vita più consoni alla persona umana. Papa Francesco, nella Laudato si’, ci ricorda che «quando siamo capaci di superare l’individualismo, si può effettivamente produrre uno stile di vita alternativo e diventa possibile un cambiamento rilevante nella società» (208). Si tratta di passare dall’io al noi, di sentirsi corpo oltre che singole membra. La saggezza popolare africana sintetizza questo cambiamento di prospettiva nel proverbio: “se vuoi andare veloce, corri da solo. Se vuoi andare lontano, vai insieme a qualcuno”. Perché non si cresce se non insieme… Il cammino sinodale, che abbiamo avviato, è uno stimolo in più per cogliere tutte queste istanze.
Benevento, 30 agosto 2021