Il libro di Antonio Mattone (E adesso la palla passa a me. Malavita, solitudine e riscatto nel carcere. Prefazione di Andrea Orlando. Presentazione di Alessandro Barbano, Guida editori, Napoli 2017, 214 pp., euro 15) offre una riflessione stimolante su una questione spinosa. L’autore, direttore dell’Ufficio di Pastorale Sociale e del Lavoro dell’arcidiocesi di Napoli, vi raccoglie articoli editi nel corso degli anni sul quotidiano Il Mattino. Nel constatare con dolore che la situazione delle carceri italiane non è delle migliori (nel 2013 la Commissione europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per i trattamenti imposti ai detenuti) e nel segnalare anche i coraggiosi segnali d’inversione di tendenza che in questi ultimi anni hanno caratterizzato il già famigerato carcere di Poggioreale – oggi intitolato al suo vicedirettore Giuseppe Salvia, caduto vittima della camorra nel 1981 per aver avuto il coraggio di voler perquisire il boss Raffaele Cutolo –, Mattone mostra con chiarezza che la soluzione spesso invocata (ahimé, dai più) come panacea di tutti i mali, ossia quella di rinchiudere dentro tutti i “reprobi” e lasciarli al loro destino, in realtà non paga né in termini di sicurezza né in termini economici.
Non paga in termini di sicurezza perché, con il sistema attualmente vigente, una volta fuori i detenuti tornano in buona parte a delinquere, finendo così per attraversare di nuovo la soglia del carcere; non paga in termini economici perché un detenuto ha un costo giornaliero rilevante per le casse dello Stato: una politica più avveduta consisterebbe invece nel perseguire il recupero del carcerato in modo che, una volta assolto il suo debito con la giustizia, possa reinserisi nella società. Occorrerebbe dunque rendere il carcere più umano e preparare la società a favorire il suo reinserimento nel momento in cui il carcerato avrà scontato la propria pena. Tuttavia, questa via coraggiosa, soprattutto in tempi come quelli attuali in cui spirano forti i venti dell’intolleranza, non dà vantaggi in termini elettorali, anzi si rivela un percorso in salita per coloro che siedono in Parlamento; si finisce così per procrastinare uno stato di cose che, alla fin fine, non giova a nessuno.
Antonio Mattone ha maturato il proprio impegno come volontario nelle carceri ormai più di dieci anni fa, dopo aver intrapreso un cammino formativo nella Comunità di Sant’Egidio. Da questa scelta, nata in un contesto di fede, è scaturita una fitta rete di relazioni con tanti, giovani e meno giovani, che nei penitenziari italiani trascorrono un segmento significativo della propria vita. Incontri simili hanno portato l’autore a maturare la consapevolezza che la prima esperienza di detenzione è decisiva per il futuro del detenuto, perché o contribuisce in modo determinante a riabilitarlo, fornendogli le motivazioni per dare una svolta positiva all’esistenza, oppure lo porta a sprofondare ancora più in basso, in un baratro dal quale è sempre più difficile risalire. Mattone, naturalmente, la pensa come il Guardasigilli Andrea Orlando: questi, nella sua Prefazione (una prefazione non scontata né di maniera), sostiene con decisione che “va costruito un sistema di esecuzione della pena moderno, in linea con il probation system europeo, che abbia al suo centro misure alternative alla detenzione” (p. 9). Un proposito che, però, è ancora lontano dal trovare pratica attuazione, nonostante la storia recente (come per l’appunto dimostra il caso di Poggioreale) evidenzi che quando si trovano persone disposte a credervi, importanti cambiamenti sono sempre possibili e spesso proprio là dove meno ci si aspettava di vederli.
È in particolare sulla ricostruzione della persona che bisogna puntare, poiché è pericoloso illudersi che l’aspetto deterrente, basato sull’inasprimento delle pene, basti a garantire la sicurezza dei cittadini. Semmai, è sufficiente solo a illudere e a soddisfare il desiderio di sentirsi sollevati da una responsabilità e da un compito che invece riguarda tutti. Eppure, come può uscire migliorato dal carcere chi è stato costretto – ad esempio – a vivere ammassato ai compagni, in estate, “fino a sedici per stanza, con i cancelli blindati che coprono le feritoie delle porte delle celle chiusi, la doccia solo due giorni a settimana e il caldo umido e appiccicoso che annienta la mente” (p. 15)? Chi negli anni di detenzione avrà provato esperienze di questo genere non farà che immagazzinare tanta rabbia, sfruttando la detenzione per apprendere quel che ancora non sapeva dell’arte del crimine. Finirà, in definitiva, per uscire dal carcere peggiore di come v’era entrato, con l’unica prospettiva di tornare – presto o tardi – ancora dietro le sbarre.
Diversi anni fa, ebbi modo di frequentare per un certo tempo le “Comunità Incontro” fondate da don Pierino Gelmini per il recupero dei tossicodipendenti e d’incontrarvi moltissimi giovani che avevano vissuto l’esperienza del carcere: già all’epoca ricordo di aver ascoltato gli stessi racconti di sovraffollamento, sovente di scarsa igiene, di mancanza assoluta di possibilità alternative che ho ritrovato nel libro di Mattone. Ebbene, le considerazioni che trassi da quei colloqui con i giovani coincidono sostanzialmente con quelle dell’autore.
Esemplare, in proposito, è un’esperienza da lui narrata: “Alla fine di giugno [2011] ho partecipato ad una gita al mare, organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio. Grazie alla presenza degli operatori dell’Asl e alla generosità di una famiglia di ristoratori che ci ha accolto nel grazioso ristorante della baia di Puolo è stato possibile trascorrere una giornata davvero memorabile. C’era chi non faceva il bagno da oltre vent’anni. Quella corsa verso il mare appena arrivati in spiaggia è stato un gesto liberatorio, un grido che richiama ciascuno alle proprie responsabilità. Quest’anno non è passato invano. Mi sembra che si sia aperto uno spiraglio almeno per chi è recluso negli Opg [ospedali psichiatrici giudiziari]. Molto si può fare per migliorare la situazione anche per tutti gli altri detenuti. Basta volerlo” (p. 101).
Già, basta volerlo! Questa prospettiva chiama però in causa l’intera società, ci coinvolge tutti: un’approccio diverso al problema, infatti, chiede anche la disponibilità a farsi carico di un accompagnamento che in certe situazioni può diventare problematico e pesante. Per questo è così difficile sintonizzarsi su una tale lunghezza d’onda. Viceversa, più facile e sbrigativo, più remunerativo anche in termini elettorali, è chiedere che i malviventi siano rinchiusi in una cella e che la chiave sia buttata via…