Relazione mons. Roberto Repole

“Voltare pagina? L’esercizio del ministero ordinato nelle zone interne: per uVoltarena riflessione teologico-pastorale”

 

Sappiamo tutti molto bene che nel sottofondo della riflessione che mi è richiesta, espressa in qualche modo dallo stesso titolo scelto, vi è la necessità di dare delle risposte concrete a problemi che avvertiamo come sempre più urgenti.

La sola evocazione del ministero ordinato connesso alle zone rurali fa infatti emergere immaginari ben precisi, che pur con le debite differenze, investono ormai tutte le Chiese italiane. Si tratta del fatto che si ha a che fare con comuni spesso decisamente piccoli dal punto di vista della popolazione e, in non pochi casi, in via di spopolamento ulteriore; zone rurali che possono talvolta diventare meta turistica e, quindi, vedere il passaggio consistente in alcuni momenti dell’anno e in tempi rapidissimi da piccoli centri abitati a centri di media grandezza. Soprattutto, si tratta di centri che fino ad un passato relativamente recente costituivano delle parrocchie che, secondo il modello tridentino, rappresentavano delle comunità ecclesiali che riproducevano esattamente la vita e le attività di qualunque altra comunità ecclesiale, mentre ora questo sta divenendo sempre meno possibile. E ciò a causa di un altro elemento di fondo, quello che appare maggiormente e a cui va immediatamente la nostra immaginazione, ovvero il fatto che in molti di questi centri non vi è più la presenza fisica del presbitero, al quale si chiede sempre più spesso di essere parroco o amministratore parrocchiale di diverse comunità che, nel passato, godevano della presenza di un pastore dedicato ad un’unica parrocchia. A ciò si può aggiungere il fatto che sovente la crisi delle comunità civili sta investendo in qualche modo la stessa Chiesa. Non è così raro infatti – per quel che mi è dato di comprendere a partire, in questo caso, dal mio breve ministero episcopale – che alcuni comuni si vedano depauperati di molti servizi, a motivo della contrazione numerica della popolazione e, proprio per questo, invocano la presenza della Chiesa quale ultimo baluardo per esprimere la permanenza della dignità e del senso della comunità civile. In molti casi mi pare che si stia producendo un fenomeno inverso a quello che deve essere avvenuto nel momento della nascita delle parrocchie: allora la comunità ecclesiale andava ad instaurarsi laddove esisteva già una comunità civile, che ne era il naturale presupposto; oggi la comunità civile domanda alla comunità ecclesiale di arginare, con la sua presenza, i processi di sfaldamento da cui è investita.

Non sono che esempi, per evocare ciò a cui va la nostra immaginazione nel momento in cui ci troviamo ad affrontare un tema come quello che mi è stato proposto.

È evidente che rispetto a questi e ad altri fenomeni analoghi si potrebbero svolgere riflessioni di tipo molto diverso, come si può evincere anche solo dagli esempi fatti. A me spetta di offrire una riflessione di tipo teologico-pastorale, che inquadri questi ed altri fenomeni nello spettro dell’esercizio del ministero ordinato e, dunque, di quel che tale ministero è e rappresenta per la Chiesa.

Nel farlo, siamo chiamati a sentire anzitutto l’ustione delle grandi tensioni e sfide che investono i preti che svolgono in questi contesti il loro ministero: come quella data dal doversi occupare di molte comunità in contesti nei quali in precedenza operavano diversi preti, con incarichi più circoscritti; come quella data dal trovarsi nella difficoltà di unificare aspetti della vita ecclesiale, soprattutto a motivo della resistenza di cristiane e cristiani tendenti a mantenere caparbiamente lo “status quo”; come quella, soprattutto, di avere il dovere di prendersi cura dell’amministrazione di molte comunità insieme, ciascuna delle quali è dotata di diverse strutture che chiedono, se possibile, di essere ben utilizzate e, al minimo, di essere quanto meno mantenute.

Nel farlo, mi pare particolarmente utile, altresì, rimettere in evidenza la svolta teologica che, in ordine al ministero ordinato, si è sviluppata a partire dal magistero conciliare del Vaticano II, a motivo del fatto che esso è stato decisivo nel determinare in maniera rinnovata chi sia il ministro ordinato e che cosa rappresenti il suo servizio per la Chiesa. A distanza di sessant’anni può essere importante misurarne la novità e le virtualità rispetto alla visione precedente, ma anche richiamare con onestà i possibili limiti che possono toccare proprio il nostro tema. A partire da qui potrà essere utile, in un momento successivo, fare alcune considerazioni su: come ripensare il ministero della presidenza del presbitero e sul senso che in ciò riveste anche la cura per l’amministrazione; come valorizzare in senso nuovo il ministero diaconale; l’importanza di dare attuazione a nuove ministerialità laicali, che aiutino con la loro stessa esistenza a chiarificare i limiti di un ministero di presidenza; ciò che si può guadagnare, anche in ordine al ministero del prete, da una analogia con il ministero di presidenza del vescovo nella diocesi, secondo le possibilità già attualmente offerte dal CIC.

È in questa direzione che orienterò la mia riflessione e la mia proposta teologico-pastorale.

1.     I limiti e le possibilità di un ministero sostanzialmente sacerdotale

Considerando, sia pure con uno sguardo estremamente sintetico, la lunga storia dell’interpretazione che del ministero ordinato (specie del prete) è stata data, si deve riconoscere che la lettura in termini sacerdotali ha finito con l’avere una forte influenza. Se si considerano nel loro complesso gli scritti neotestamentari, occorre ammettere che non si tratta di qualcosa di illegittimo. Nella misura in cui è un modo per richiamare l’assoluta novità offerta da Cristo sacerdote nel dono del suo corpo, che salva l’umanità e diviene così il fondamento ultimo della Chiesa, la categoria sacerdotale potrebbe anche essere assunta quale cifra sintetica per esprimere il tutto del ministero presbiterale. Sappiamo bene, infatti, che le categorie sacerdotali non vengono usate, nel Nuovo Testamento, per indicare né gli apostoli né i ministri: neppure coloro che vengono designati quali presbiteri-episcopi. Il linguaggio sacerdotale è applicato invece a Cristo, nel preciso senso offerto dalla Lettera agli Ebrei, e alla comunità dei credenti in Cristo, nel senso offerto dalla 1 Pietro e da Apocalisse. Se rimane dunque nell’orizzonte di quanto ci prospetta il Nuovo Testamento, il linguaggio sacerdotale può venire applicato ai ministri ordinati e specificamente ai presbiteri. E’ perciò condivisibile la conclusione cui giunge Giacomo Canobbio, in uno studio che ripercorre la storia dei termini con cui si è parlato dei soggetti del “secondo grado” del sacramento dell’ordine e che fa eco ad un documento della Commissione Teologica Internazionale sul tema: si può ancora oggi «parlare di “sacerdoti” purché si abbia la preoccupazione – dice – di ricordare che il significato di questo termine va mutuato dal sacerdozio di Gesù Cristo e della Chiesa, il quale, per quanto la celebrazione eucaristica rivesta importanza fondamentale, non si riduce alla funzione cultuale. Comporta anzi, sulla scorta soprattutto di 1 Pt 2,9, la proclamazione delle opere di Dio».

Ciò non di meno, è del tutto evidente che, per una serie di motivi, che vanno dal fatto che con il diffondersi del cristianesimo si assiste a un progressivo autonomizzarsi dei presbiteri rispetto ai vescovi all’assunzione di elementi di provenienza pagana, il ministero dei presbiteri non solo è stato per lo più letto in termini sacerdotali, ma la categoria sacerdotale ha finito per venire circoscritta alla dimensione cultuale. Si tratta di un fenomeno che troverà il suo culmine nel Medioevo, laddove il sacerdozio finisce per essere connesso all’offerta del sacrificio eucaristico e all’assoluzione dei peccati, in una sostanziale mancanza di distinzione tra la figura del prete e quella del vescovo.

La lettura cultuale sarà determinante anche nello schema teologico che di fatto si imporrà a Trento e che può essere sintetizzato nella dottrina esposta nella sessione XXIII, in cui si leggono il sacrificio e il sacerdozio come intimante congiunti, tanto da essere esistiti «sotto ogni legge»; per dedurne che, dal momento che nel Nuovo Testamento viene istituito il sacrificio eucaristico, con esso viene anche istituito il nuovo sacerdozio. Cristo avrebbe così trasmesso agli apostoli e ai loro successori «il potere di consacrare, di offrire e di distribuire il suo corpo e il suo sangue e inoltre di rimettere o di non rimettere i peccati».

L’interpretazione cultuale, tanto prima quanto dopo Trento, si è tuttavia sposata con una lettura sacrale del ministero del prete, che ha fatto di lui una sorta di intermediario tra Dio e gli altri credenti in Cristo. L’influsso dionisiano sarà determinante per questo sviluppo sacrale; e, dopo il concilio di Trento, tale visione sacralizzante troverà sviluppo nella scuola oratoriana, in Francia e nella visione del prete quale “alter Christus”, che avrà forte eco nello stesso Magistero pontificio precedente il Vaticano II.

Quanto occorre rilevare nel contesto del nostro tema è che una tale massiccia visione si è accompagnata e ha contribuito a ingenerare una visione di Chiesa tendenzialmente piramidale, in cui il prete-monaco ha finito per il rappresentare spesso l’analogatum princeps del cristiano. Alcuni aspetti risultano, in tal senso, evidenti. Con l’imporsi di una visione cultuale, il sacerdozio non è più tanto concepito quale servizio alla comunità cristiana, quanto come realtà in sé, definita dal potere di consacrare il pane e il vino, portando a un moltiplicarsi delle ordinazioni assolute. Nella misura, poi, in cui tale visione si radicalizza in una prospettiva sacrale finisce per determinare una a-seità del sacerdote rispetto agli altri cristiani, decretandone pure una chiara superiorità, in forza della potestà d’ordine. A ciò si deve aggiungere il fatto che, dal momento che la visione cultuale dichiara, sul piano del sacramento ricevuto, una equivalenza tra presbiterato ed episcopato, si è finito con il distinguere due ordini di gerarchia: uno secondo il sacramento; l’altro – in cui si situava l’episcopato – secondo la dignità. Una tale distinzione, che evolverà in chiara distinzione tra ordine e giurisdizione, favorirà altresì la interpretazione del papa quale vicario di Cristo in senso giuridico.

Questa interpretazione del ministero del prete, così determinante nell’arco della storia del pensiero cristiano, si è accompagnata a una immagine gerarchica di Chiesa. È dunque illuminante quanto Citrini affermava qualche decennio fa, nella consapevolezza lucida del fatto che il sacerdozio è andato definendosi in termini di potestas. «La potestas – diceva – ben si accorpava ai tratti del modello gerarchico. La stessa immagine gerarchica definita dalla potestas però al suo interno è complessa, perché viene a scomporsi secondo “ordine” e “giurisdizione”. Questa bipartizione tende a far andare l’”ordine” alla deriva nella direzione di un’assolutezza rispetto alla storia e alla chiesa, e viceversa la “giurisdizione” alla deriva in direzione opposta, fino ad assimilarsi tendenzialmente a moduli della società civile».

Ciò che potrebbe essere utile rimarcare, specie in ordine alla ricerca di prospettive per il nostro tema, è che la distinzione delle potestates offriva un modello teologico che poteva facilitare l’ammissione dell’esistenza di un potere non derivante dal sacramento dell’ordine e che, dunque, aveva un’altra origine. Per quel che mi è dato di sapere, la storia non è andata tanto e sempre nella direzione di distinguere un potere e, dunque, una responsabilità dei laici diretta, in quanto non derivante dall’ordine. Tuttavia si deve almeno ammettere che ciò era formalmente possibile in tale schema di pensiero; e ciò potrebbe costituire uno schema interpretativo più immediatamente capace di facilitare una distinzione di responsabilità, anche oggi, tra la responsabilità del prete in ordine a quel che concerne la dimensione sacerdotale e altre responsabilità, ad esempio sul piano dell’amministrazione, che potrebbero essere a capo di altre persone. Dovrebbe essere evidente il guadagno che ne potrebbe derivare quando pensiamo al concreto ministero dei preti in zone rurali.

Se ho voluto richiamare questo è, tuttavia, soprattutto per essere lucidi nel momento in cui si fosse tentati – magari in maniera surrettizia e poco riflessa – di ritornare a prospettive teologiche di questo genere, per risolvere i problemi di oggi. Da questo punto di vista, possono essere interessanti quei casi, nei quale è evidente il tentativo di prendere in carico problemi analoghi a quelli che si sono richiamati all’inizio di questa relazione, cercando nella celebrazione dell’Eucaristia e del sacramento della Penitenza il proprium del prete. Capita spesso di assistere nella riflessione comune e nella pratica alla ricerca di ciò che sarebbe specifico del prete per rintracciarlo nella dimensione sacerdotale, e affidare completamente ad altri cristiani compiti oggi in capo al presbitero, ad esempio quelli amministrativi. Bisogna però avere la lucidità di vedere che, così facendo, si ricade nei limiti profondi della suddetta teologia, ovvero lo scollegare totalmente dal sacramento dell’ordine ciò che concerne l’annuncio autorevole della Parola e la cura pastorale della Chiesa. I possibili pericoli dovrebbero essere evidenti a tutti: quello di considerare queste altre dimensioni come aspetti che si possono pensare secondo una prospettiva altra da quella della conformazione a Cristo; quello di non connettere in un qualche modo aspetti della vita della Chiesa anche importanti – come l’uso delle finanze e l’amministrazione dei beni – a ciò che rappresenta in essa il ministero ordinato, cioè la necessità di radicare la Chiesa nella memoria apostolica; il fatto, poi, di ridurre la stessa celebrazione eucaristica a qualcosa che non è intrinsecamente agganciato alla Chiesa e alla sua vita.

Ci si potrebbe esprimere perciò così: quando si pensasse di risolvere i problemi del ministero presbiterale attuale nelle zone interne secondo questa prospettiva, si volta certamente pagina – per usare l’immagine del titolo di questa relazione – ma la si volta all’indietro, ben sapendo che cosa vi è scritto e, dunque, ben conoscendo i non pochi limiti pastorali di una simile impostazione teologica.

2.     La svolta del Vaticano II e della teologia ad esso connessa, tra possibilità e limiti

Sarebbe evidentemente lungo e complesso richiamare tutti gli elementi di rinnovamento che la teologia precedente il Concilio, quella depositata nel Vaticano II e quella successiva, hanno fatto emergere. Alcuni di essi sono depositati già nell’ampio rinnovamento della visione ecclesiologica. Concepire la Chiesa in termini di mistero che, nel realizzarsi nella storia, prende la figura del popolo di Dio i cui soggetti sono dotati tutti della pari dignità battesimale e filiale-fraterna è già una prospettiva di non poco conto. Tale visione implica infatti che i ministri ordinati non possano essere visti nell’orizzonte di una superiorità rispetto agli altri cristiani, quanto piuttosto in una dimensione di diaconia nei loro confronti e della Chiesa tutta. Lo stesso dicasi di una visione di Chiesa ripensata come strutturalmente estroversa e missionaria, a servizio della salvezza del mondo. Ne consegue, infatti, che anche il ministero dei presbiteri debba essere inquadrato nell’orizzonte di una Chiesa siffatta; proprio per questo, la lettura del ministero del prete in chiave soltanto cultuale, a servizio di una Chiesa che abita un mondo già “naturalmente cristiano” appare inadatta al mutamento ecclesiologico operato dal Concilio. A ragione, Castellucci rileva come il Vaticano II abbia «soprattutto riletto in chiave missionaria l’intera teologia dell’Ordine, trattando di conseguenza del rapporto tra culto e apostolato in modo unitario, in tensione con la maggioranza del compito cultuale propria dell’impostazione precedente consacrata dal concilio di Trento e armonizzando così ordine e giurisdizione».

Se si considera espressamente l’apporto del Concilio circa coloro che, nella Chiesa, ricevono il sacramento dell’ordine, tutto ciò appare ancora più evidente. Una delle svolte più chiare operate dai padri conciliari è stata quella di superare lo schema della duplice potestas, proponendo autenticamente la sacramentalità dell’episcopato; e vedendo in esso «la pienezza del sacramento dell’ordine» (LG 21). Nel sacramento, inoltre, non si radica solo più la potestas sanctificandi, come ancora il textus prior del futuro n. 21 della LG affermava, ma i tria munera. Dunque anche il munus docendi e quello regendi hanno la loro radice nel sacramento. Viene così superata l’idea che il vescovo sia luogotenente del papa, in forza di una potestà di giurisdizione. Egli è pastore proprio della Chiesa; e nei vescovi assistiti dai presbiteri, come si afferma nell’esordio dello stesso LG 21, «è presente in mezzo ai credenti il Signore Gesù Cristo, pontefice sommo». Non si tratta di una presenza statica, concernente quel che sarebbe il vescovo in sé stesso, ma dinamica in quanto è a servizio della crescita della comunità cristiana, come la prima parte dello stesso numero della costituzione evidenzia. Nello sviluppare poi il servizio reso alla Chiesa attraverso il triplice compito dell’insegnamento, sacerdotale e di governo, viene scorta una priorità del munus profetico: si tratta di una conseguenza del più generale ripensamento ecclesiologico, per cui si vede la Chiesa a servizio del mondo e naturalmente missionaria. Significativo, in tal senso, il fatto che l’esordio di LG 25, in cui si dice che «tra le funzioni principali dei vescovi eccelle la predicazione del vangelo», rappresenti un’aggiunta del terzo schema; e che essa sia stata voluta per indicare proprio la priorità di tale compito. Per quel che attiene più esplicitamente la realtà del presbiterato, è risaputo come il mutamento significativo che ha coinvolto il ministero episcopale ha impresso la necessità di rileggere lo stesso presbiterato, una volta che è apparso quale secondo grado dell’unico sacramento dell’ordine. Anch’esso si caratterizza, pertanto, per i tria munera che contrassegnano il ministero episcopale (cfr. LG 28; PO 4-6). Non è, dunque, più possibile ridurre il ministero dei preti alla sola dimensione cultuale: esso concerne tutti i tre compiti, ciascuno dotato di una priorità, in ambiti diversi; e ciascuno comprendente implicitamente anche gli altri. Si tratta di un aspetto particolarmente evidente nel decreto PO (cfr. nn. 4-6).

Anche nel caso dei presbiteri, infine, come già in quello dei vescovi, i testi conciliari mentre pongono i preti in relazione alla Chiesa, al cui servizio essi esistono, li pongono in modo singolare in relazione a Cristo. Anche in essi, in forza del sacramento ricevuto, si rende dunque presente in modo particolare il Signore; ma quale presenza sempre finalizzata all’esistenza della Chiesa.

Dunque, lettura cristologica e lettura ecclesiologica debbono evidentemente contemperarsi, secondo la lezione dei testi conciliari.

Non c’è dubbio che tale visione è apportatrice di novità interessanti, come si è già avuto modo di sottolineare. Se tuttavia si guarda a tutto ciò a distanza di sessant’anni, si può constatare che alcune incompiutezze degli stessi testi conciliari possono aver dato luogo a modi di concepire ed esercitare il ministero che sono oggi assai problematici, specie quando lo si pensa come ministero dei preti nelle zone interne.

Ne segnalo in particolare due.

Da un lato si deve constatare che la lettura del ministero presbiterale in connessione al triplex munus senza una più puntuale specificazione di come ciò investa l’esercizio concreto del ministero può ingenerare un’idea ed una pratica per le quali il prete si ritiene ugualmente responsabile in tutti gli ambiti del suo ministero, senza alcuna forma di differenziazione. Per intenderci, ciò può insensibilmente portare a ritenere che quanto il presbitero compie presiedendo l’eucaristia, quello che dice quando svolge una catechesi, ciò che decide quando fa una scelta pastorale in qualsiasi campo ciò avvenga, abbiano lo stesso grado di autorità e autorevolezza. Senza contare che ciò può indurre a una forma di sacralizzazione del prete, qualunque sia l’oggetto specifico del suo ministero.

Dall’altro lato, va a mio avviso segnalato che una non chiara ermeneutica della pienezza del sacramento dell’ordine del vescovo e il ripensamento dell’unico sacramento nei tre gradi ha di fatto indotto a pensare il ministero nella forma della matrioska, per cui il grado maggiore include quelli inferiori; non favorendo una relazione strutturale tra i tre gradi e neppure con altre ministerialità di tipo laicale, e inducendo il prete a svolgere il suo servizio in modo piuttosto individuale e solitario. Ciò può avere delle conseguenze problematiche nel momento in cui si pensa all’esercizio del ministero presbiterale nelle zone rurali. La più evidente è quella di un ministero svolto in un contesto in cui di fatto c’è una minore appartenenza di cristiani di un tempo e soprattutto ci sono meno preti che nel passato e nel quale, proprio per questo, lo stesso prete ha la responsabilità di più comunità ma nelle quali può correre il pericolo di svolgere il suo ministero in modo ancora più presenzialista e accentratore che quando vi erano più preti. Una seconda conseguenza, strettamente congiunta alla prima, è quella data da un ministero che, nei fatti, lungi dal promuovere nelle comunità processi di estroversione, di missionarietà e di percezione netta della fine della cristianità, favorisce e incentiva – pur senza volerlo – il mantenimento dello status quo. Le conseguenze sono note: come quella di una quasi impossibilità, in certi contesti, a unificare almeno alcuni aspetti della vita ecclesiale tra comunità diverse (come la celebrazione eucaristica domenicale, l’attività catechetica o caritativa, la pastorale giovanile); e ciò non solo a motivo delle distanze.

Se a questo si aggiunge che uno dei modi che si sono usati per mantenere le cose come stanno è stato quello di importare preti provenienti da altri continenti è facile intuire che della svolta teologica operata dal Vaticano II si rischia di recepire di più i possibili limiti che non le possibili virtualità.

3.     Prospettive aperte

Ciò detto, sulla base della riflessione teologica compiuta e delle problematiche segnalate, si possono indicare alcune prospettive. Esse riguardano la rivisitazione del servizio di presidenza del presbitero; le possibilità insite nel considerare il ministero ordinato come differenziato e articolato al suo interno; la possibilità di immaginare nuove ministerialità laicali; e la considerazione di possibili analogie con il ministero episcopale.

3.1  Rivisitazione del servizio di presidenza del presbitero

Uno dei vantaggi che la teologia emersa dall’ultimo Concilio ci consegna è quello di orientare ad una comprensione del ministero come servizio essenziale al fine di radicare continuamente la Chiesa nella memoria apostolica, attraverso l’esercizio del triplice munus. Ciò fa sì che anche l’annuncio della Parola e il governo servano a mantenere radicata la Chiesa nella testimonianza apostolica. In particolare, per il vescovo e per il presbitero ciò si esplica – pur in modo analogo – nel servizio della presidenza della comunità. Dunque non si può immaginare una presidenza dell’eucaristia che non abbia un qualche collegamento intrinseco alla presidenza della comunità, che nasce sempre dalla celebrazione eucaristica. Ma tale presidenza è un servizio affinché nessuna dimensione della Chiesa prenda una strada diversa da quella consegnataci dalla memoria apostolica.

Questo spiega perché non si può immaginare che vi siano ambiti della vita ecclesiale che si ritengano sganciabili dal servizio di presidenza del presbitero. Pensando, dunque, al servizio dei preti nelle zone rurali non si può prospettare – per parlare di uno degli snodi più importanti – uno sganciamento totale dal servizio del prete della dimensione amministrativa ed economica. La legale rappresentanza, sancita dal can. 532 CIC, traduce su un piano giuridico un principio teologico che dovrebbe però essere chiaro: quello dato dal fatto che il prete esiste per garantire che nessuna dimensione, neppure quella amministrativa ed economica, venga esercitata con finalità diverse da quelle della Chiesa, che si mantiene fedele alla testimonianza apostolica. Si può dunque dibattere circa il fatto che la legale rappresentanza sia la migliore traduzione giuridica possibile; ma non si può cercare delle soluzioni che mettano in campo una concezione del presbitero esclusivamente cultuale e magari sacrale, con il rischio forte di porre le premesse perché alcune dimensioni della vita ecclesiale, come quella amministrativa ed economica, vengano poi esercitate in maniera magari efficiente e competente, ma non secondo le finalità dell’esistenza e della missione della Chiesa.

Ciò non significa però che presiedere delle comunità e garantirne il radicamento apostolico si traduca nel fatto che il presbitero debba poi occuparsi in maniera diretta di tutti gli aspetti, accampando oltre tutto competenze che neppure ha. In questo senso, bisogna prospettare un altro sentiero rispetto a quello che di fatto è stato spesso assunto dalla messa in atto del magistero conciliare in questi sessant’anni. Spesso la pratica ha promosso una presidenza intesa come l’accollarsi da parte del prete di tutte le responsabilità e, talvolta, la sacralizzazione delle scelte operate in qualunque campo del suo ministero. Bisogna però essere lucidi su questo punto: affermare che il ministero del presbitero è un servizio di presidenza, che implica anche un’attenzione alla dimensione economica ed amministrativa, non significa ipso facto che l’unico modo di esercitare tale presidenza sia quello di una cura immediata di ogni questione o, peggio, una sacralizzazione di qualunque scelta compiuta, qualunque sia l’ambito di cui si parla.

Può venire in aiuto a immaginare altre forme di presidenza che possono essere molto utili nelle zone interne, un’altra prospettiva conciliare: quella del presbiterio, specie se si pensa il vescovo come interno ad esso e presidente anzitutto di esso.

In quest’ottica si può immaginare che la presidenza sia da leggersi più nella logica della episcopé, ovvero della sorveglianza, che non dell’azione diretta e immediata su ogni questione. Una sorveglianza il cui potere non è evidentemente ad omnia, ma relativo a ciò che concerne il possibile deragliamento della Chiesa dalla testimonianza apostolica. Forse è soprattutto nella specificazione dei confini del potere del presbitero che si potrebbe chiedere al Diritto degli interventi più precisi e puntuali, invece che invocare uno scollamento totale del ministero del presbitero da tutto ciò che concerne la dimensione economica ed amministrativa, che rischierebbe di compromettere aspetti importanti del suo ministero.

D’altra parte, quando si pensi alla presidenza nell’orizzonte di un presbiterio, si possono trovare prospettive interessanti per evitare di dover ritenere, in modo irrealistico, che ogni singolo presbitero sia dotato di analoghe qualità e carismi su tutto quanto concerne i tria munera. Questo proviene da una interpretazione del mutamento teologico sedimentatosi nell’ultimo Concilio che può avere effetti negativi quando pensiamo ai preti nelle zone interne, in quanto può indurre all’idea che un prete valga semplicemente l’altro e che a chiunque si possano chiedere le medesime cose: salvo il fatto che la dimensione personale smentisce sistematicamente un tale pensiero. Diverso se si pensa in termini di presbiterio. In un tale orizzonte, si può immaginare di dover pensare per ogni ampia zona rurale o interna almeno un presbitero che abbia le qualità per esercitare un servizio di sorveglianza anche su un territorio piuttosto ampio, coadiuvato da confratelli che lo aiutano senza che tutti siano dotati ugualmente di uno sguardo di insieme e di una capacità di presidenza non presenzialista e non esercitata al modo della direzione e del controllo di ogni singolo aspetto. In questo, una sana differenziazione del clero, che è stata sempre presente in qualche modo nella storia della vicenda cristiana, può essere quanto mai utile, quando si pensi in particolare alle zone interne.

3.2  Differenziazione e complementarità nel ministero ordinato

Esiste poi una seconda prospettiva, che potrebbe essere di aiuto a prospettare il ministero presbiterale nelle zone interne nel prossimo futuro. Essa è data dalle possibilità che si possono aprire da un’accoglienza più matura, teologicamente e pastoralmente, del ministero diaconale quale parte del ministero ordinato a tutti gli effetti, benché non sacerdotale, secondo quanto è stato sviluppato dal Magistero recente e puntualizzato anche dall’importante documento della Commissione Teologica Internazionale dedicato al tema. La sua esistenza ci dice che il ministero ordinato è a servizio del rimando alla radice apostolica, anche con questo ministero non sacerdotale e, pertanto, di un ministero che non contempla la presidenza dell’Eucaristia e della comunità.

Il problema è che in questi sessant’anni, nella pratica e talvolta nella stessa teologia, non si sono sviluppate tutte le potenzialità di un tale cambiamento, mentre si è stati spesso determinati da alcune ambiguità presenti nello stesso Concilio: come quella di indurre ancora a pensare ad un ministero di tipo fondamentalmente cultuale; e come quella, soprattutto, di pensare ai gradi dell’ordine in una visione gerarchica per la quale il grado inferiore è di fatto assorbito da ciò che è e fa colui che è investito del grado superiore. Ciò non ha permesso di pensare e tanto meno di avviare pratiche di esercizio del ministero diaconale, che possa essere davvero altro da quello presbiterale e complementare ad esso.

Se lo si facesse, si potrebbe cogliere l’opportunità che è data da un ministero che è di per sé plastico, più suscettibile di quello presbiterale di assumere forme diverse e rispondere ad esigenze diversificate.

In questa linea, si potrebbe pensare specie nelle zone rurali ad un ministero del diacono che – se si ha la persona giusta e competente – potrebbe davvero avere la responsabilità, sempre sotto la sorveglianza e la presidenza del presbitero, della gestione amministrativa ed economica di una vasta comunità di piccole parrocchie.

Oppure, si può pensare ad un ministero che faciliti la creazione e la cura dei legami tra le persone di una stessa comunità e la creazione e la cura del legame tra le comunità affidate alla presidenza di un solo presbitero. Già negli anni ’60 Karl Rahner vedeva soprattutto nella tessitura e nella cura delle relazioni e della formazione di una comunità umana il futuro del servizio caritativo del diacono. Egli osservava con acutezza come le parrocchie si fossero strutturate sulla base di preesistenti comunità civili, mentre ciò che si andava velocemente sfaldando era proprio l’esistenza del tessuto di relazioni di tali comunità. Cosa che si sta evidentemente verificando in maniera sempre più intensa nel contesto culturale attuale e che coinvolge, pur in un modo specifico, le zone rurali. Sarebbe interessante, in tal senso cominciare ad immaginare un esercizio del ministero ordinato in tali zone, sapendo di dover cercare candidati al ministero diaconale e sapendo che la presenza di diaconi potrebbe risultare utile a riformulare l’esercizio attuale del ministero del presbitero in molti aspetti, compreso questo ministero di tessitura di relazioni. In fondo, ciò che spesso è di ostacolo – nelle zone rurali – ad un mutamento del modo di vivere l’appartenenza ecclesiale è proprio un forte timore di perdere quel che resta della comunità civile a cui si appartiene. Il prete ne fa spesso le spese, a tanti livelli. Si può immaginare un ministero diaconale che, nell’impegno a tessere e curare le relazioni, prepari per così dire il terreno al servizio di presidenza del presbitero.

3.3. Nuove ministerialità

Una terza prospettiva è certamente offerta dalla istituzionalizzazione di nuove ministerialità laicali. Alla luce delle riflessioni fin qui proposte, si può avanzare la tesi secondo cui alcune incompiutezze presenti nel Vaticano II abbiano di fatto favorito una prospettiva per la quale il prete si sente investito di tutta la ministerialità di cui necessita una Chiesa per esistere.

Mi sembra che il fatto di indurre a pensare il triplice grado del ministero ordinato secondo la visione che il grado maggiore finisce per assorbire il minore abbia certamente indotto all’idea che il prete si ritenga il detentore, a livello delle comunità parrocchiali, di tutte le ministerialità che, al limite, può delegare secondo il suo beneplacito. Dall’altro lato, ci sono nello stesso Concilio dei richiami a possibili altre ministerialità laicali. È il caso di dell’incipit di L.G. 18, laddove si parla di vari ministeri istituiti da Cristo, anche se – come nota Philips nel suo commento – si rimanda ad altri momenti per parlare di doni carismatici. Non vi è tuttavia una trattazione diffusa nel corpus conciliare e questo può aver prodotto una certa lentezza a prendere confidenza con la necessità strutturale di altri ministeri.

Oggi mi pare una strada percorribile, per meglio evidenziare che il ministero della presidenza non è assorbimento di ogni ministero di cui necessita la Chiesa. Ciò può rappresentare una risorsa importante, specie nelle zone interne e rurali.

Si tratta di qualcosa che ogni Chiesa locale può e deve strutturare. Quel che mi pare importante è che avvenga una istituzionalizzazione di alcuni ministeri, in modo che si renda evidente in maniera sempre più chiara a tutto il popolo di Dio che quello del prete non è l’unico ministero esistente. Si può pensare al ministero dell’accolitato, in particolare, come quello della cura e della vicinanza a tutte le persone anziane e malate, che non possono prendere normalmente parte alla vita delle comunità cristiane. Un ministero che, in quanto tale, è occasione di incontro e di contatto con intere famiglie. Si può pensare al ministero del responsabile e coordinatore della catechesi, immaginando persone che si prendono in carico la responsabilità di gestire la catechesi (non solo quella dei bambini e dei ragazzi!) in ogni comunità cristiana e in gruppi di comunità. Si può pensare soprattutto al ministero di guida di comunità, laddove il prete non è residente.

Alcune attenzioni mi parrebbero decisive. Insieme al fatto che vi sia una vera e propria istituzionalizzazione, per le ragioni suddette, è indispensabile che vi sia l’istituzionalizzazione di un percorso formativo e un processo di discernimento che non coinvolga soltanto il prete o i preti delle comunità interessate, ma responsabilizzi in qualche modo la Chiesa locale e il suo vescovo. Oltre ciò mi parrebbe importante che tali ministeri vengano concessi a tempo, affinché ad accedere ad essi non siano soltanto delle persone che si sentono di spendere l’intera loro esistenza e, soprattutto, al fine di evitare che vengano bloccate nuove corresponsabilità. Per quel che concerne il ministero di guida di comunità laddove il prete non è residente, mi parrebbe importante che si tratti non tanto di un singolo ministro, bensì di un gruppo ministeriale. Ciò potrà aiutare a rendere evidente che non si ha a che fare con un ministero che sostituisce quello della presidenza, la quale è riservata al presbitero.

Trattandosi di ministeri istituiti, con un mandato chiaro di responsabilità e sempre sotto la presidenza del presbitero, essi possono costituire una possibilità per immaginare forme nuove del ministero del presbitero nelle zone rurali, senza annullare il suo servizio di presidenza che si esprime e si visibilizza nella presidenza della celebrazione eucaristica.

3.4 Analogie virtuose con il ministero episcopale

Ho tralasciato volutamente di parlare di altri ministeri più strettamente correlati all’ambito amministrativo ed economico, perché mi sembra che qui si possa fare tesoro di una analogia con ciò che già l’attuale CIC prevede in relazione al ministero di presidenza del vescovo. Penso in particolare a due figure, quella del cancelliere e quella dell’economo diocesano.

Il canone 482.1 indica l’obbligo della costituzione della figura del cancelliere. Nel commento offerto dalla Redazione di Quaderni di Diritto Ecclesiale si dice: «E’ obbligatoria in ogni curia la costituzione dell’ufficio del cancelliere, il cui compito principale consiste nel redigere e custodire gli atti della curia, emanati cioè da chi è soggetto di potestà esecutiva ordinaria (…): in questo senso anche gli atti emanati dal vescovo, in quanto ordinario, sono atti della curia»[1].

Pur nella consapevolezza che in questo caso l’analogia implica davvero una profonda dissimilitudine, si può però ipotizzare che tutto il servizio riguardante il lavoro di ufficio e la preparazione e gestione dei documenti necessari a vari livelli, sul piano parrocchiale o anche interparrocchiale, possa essere svolto da una persona investita di un ministero proprio e, per ciò stesso, riconosciuta dall’intero popolo di Dio. Al presbitero potrebbe spettare qualcosa di simile al compito che spetta al vescovo rispetto ai documenti della diocesi che, nel caso della presenza di un cancelliere efficiente, è davvero ben poca cosa e si limita spesso solo ad una sorta di supervisione.

Un’analogia ancora più stretta si può invece immaginare a proposito del compito amministrativo ed economico. Il canone 494.1 afferma quanto segue: «In ogni diocesi, dopo aver sentito il collegio dei consultori e il consiglio per gli affari economici, il Vescovo nomini un economo; egli sia veramente esperto in economia e particolarmente distinto per onestà». Il commento che i canonisti di Redazione offrono all’intero canone può essere istruttivo nella prospettiva di immaginare un servizio analogo a livello di una parrocchia o, pensando alle zone rurali, soprattutto a livello interparrocchiale. Essi affermano infatti: «L’ufficio dell’economo diocesano è una figura giuridica nuova e obbligatoria. Per la nomina, il vescovo deve sentire ad validitatem (…) il CDAE e il collegio dei consultori. Deve possedere competenza in materia economica e distinguersi per rettitudine personale. Può essere chierico o laico (uomo o donna). (…) All’economo spettano compiti esecutivi relativamente alla conduzione concreta dell’amministrazione, sia ordinaria che straordinaria, dei beni della diocesi. Egli è soggetto da un lato all’autorità del vescovo, che ne è il responsabile ultimo, dall’altro alla funzione di indirizzo e di controllo del CDAE. Spetta all’economo redigere ogni anno il bilancio consuntivo della diocesi»[2].

Se si prende sempre più atto che esiste la possibilità di un Diritto diocesano, forse troppo poco sfruttata, si può immaginare la decisività di istituire nelle zone interne, con una normativa adeguata, figure ministeriali analoghe a quel che l’economo è sul piano della diocesi. Si tratta di individuare cristiani dotati della giusta ed adeguata competenza, in un confronto previo con il consiglio o i consigli per gli affari economici della parrocchia o delle parrocchie e affidare ad essi il compito dell’amministrazione concreta. Anche in questo caso si può pensare che il consiglio o i consigli per gli affari economici siano chiamati a offrire un servizio di indirizzo e di controllo. Allo stesso modo si può ipotizzare che il presbitero eserciti la sua autorità, senza che questa si concretizzi nell’occuparsi concretamente dell’amministrazione o delle scelte e della conduzione dei lavori di volta in volta necessari; ma sia, appunto, una autorità di episcopè, di sorveglianza perché tutta la dimensione economica ed amministrativa, pur godendo della giusta autonomia, non venga intesa e condotta con criteri altri da quelli evangelici ed ecclesiali e rimanga pertanto a servizio di ciò che la Chiesa è e della missione che è chiamata a svolgere.

Conclusione

Sappiamo bene che una delle grandi sfide che come Chiese stiamo vivendo è quella di ripensare alla forma della nostra esistenza in un contesto di fine del regime di cristianità, che ci vede sempre più quale minoranza. La forma di una presenza capillare a copertura di ogni angolo di territorio è oggi non rispondente più alla realtà, per diversi motivi: la contrazione numerica dei cristiani e, quindi, anche dei preti; la fine della civiltà contadina, che implicava una certa stabilità nei luoghi di residenza.

Si apre la necessità di nuove forme di presenza, specie nei territori interni. Cosa che implica un modo nuovo di concepire il ministero dei presbiteri.

La proposta abbozzata tiene conto dei mutamenti in ciò già in atto, cercando di intravvedere nuove possibilità. Nel farlo si è però cercato di non perdere i guadagni riguardanti il ministero che la teologia ci consegna e di vigilare sulle possibili derive che hanno la loro radice in alcune incompiutezze teologiche o in troppo facili retoriche ecclesiastiche.

Il punto dirimente mi pare quello di non smarrire l’importanza di un ministero di presidenza dei presbiteri nell’orizzonte di una episcopé, senza per ciò sentirsi costretti a pensarla nella forma del sequestro e dell’assunzione di ogni possibile ministerialità.

[1] Codice di Diritto canonico commentato, p. 437.

[2] Ibidem, pp. 446-447.