Discorso di saluto alla Chiesa che è in Benevento
di S.E. Mons. Andrea Mugione
26 maggio 2016
Carissimi,
viviamo questo momento di saluto affettuoso per ringraziare, per ricordare. Ma anche come occasione propizia per ripartire e per rinnovare.
1. Confesso sinceramente sentimenti di gratitudine al Signore e a tutti voi per il cammino fatto insieme in questo decennio. Ma vorrei manifestare anche sentimenti per la stima, per la comprensione, per l’affetto, per l’amore e per la preghiera con cui mi avete accompagnato, seguito, collaborato, obbedito in questi anni di servizio pastorale. Avverto, ho avvertito e continuerò ad avvertire intorno a me affetto e tanta preghiera: vi porto, vi ho portato e vi porterò nell’intimo del cuore. Certo, avrei desiderato il contraccambio da parte di tutti. Molti hanno aperto il loro cuore.
Auspico che tutti vogliano bene al Vescovo di oggi, Felice, come sono certo che il vescovo vi amerà. Accoglietelo con amore e non solo con trepidazione. Lo dico soprattutto ai miei figli sacerdoti. Non dimenticate mai che siete sacerdoti perché lui è vescovo, non il contrario. Vi ho amati tutti, figli carissimi, sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose, seminaristi e fedeli laici, ma non ho mai sognato che tutti mi riamassero. In questo sarebbe evidente che non avrei compiuto il mio dovere di padre e di pastore. Per questo vi ringrazio anche per le preoccupazioni, le croci, i problemi e le critiche, spesso anonime e nascoste. Con la Grazia di Dio, la fiducia incondizionata nel Maestro, non mi sono scoraggiato, anzi, ho nutrito quella ferma speranza che anche dalla zizzania può nascere il grano e dal letame i fiori più profumati.
2. Se si è lavorato bene è merito di tutti e non solo del vescovo. Se si è raccolto poco è anche responsabilità di tutti, insieme. Ognuno poteva fare di più e meglio per la Gloria di Dio e per il bene dei fratelli, a partire dal Vescovo, da me! Ho cercato di governare suscitando condivisione, convinzioni, collaborazione, consenso e comunione; convincendo, persuadendo e non prendendo da solo le decisioni. Ci siamo aiutati, apprezzati, qualche volta sopportati e sempre perdonati. Ho cercato di vivere il mio ministero episcopale pazientemente, con discrezione, prudentemente, sapendo aspettare i tempi di maturazione di ognuno, cercando di mostrare il volto mite e misericordioso del padre, anche se ciò mi ha causato qualche sofferenza e qualche incomprensione. Ora, vi prego, perdonate le mie omissioni, qualora ce ne fossero state! Vi chiedo perdono dei miei limiti. Dobbiamo avere consapevolezza, coscienza tra quello che siamo e quello che dobbiamo essere; tra il ministero a noi affidato e le nostre limitate attitudini. Capacità e, a volte, incapacità tra le attese di una moltitudine e le nostre possibilità di servizio. Questa sproporzione accompagna la vita e la missione di ogni discepolo ed esige umiltà.
3. Come Gesù ha detto: “Quando avrete fatto tutto quello che vi e stato ordinato, dite: siamo servi inutili, abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,10). Uno scrittore inglese affermava: “Quando nessuno mi dice grazie, sono ringraziato abbastanza: vuol dire che ho fatto il mio dovere e nulla più”. Avere il coraggio di pronunciare questa confessione è segno di vera grandezza e nobiltà d’animo, soprattutto in un mondo in cui domina la ricerca di riconoscimento e premi! L’ingratitudine, purtroppo, è una piaga molto diffusa. Impariamo, allora, a dire “grazie” un po’ di più anche perché sono molti i doni che riceviamo da Dio e dagli uomini.
4. Rivediamo in Dio, davanti a Lui e davanti agli uomini i momenti, i cammini, le tappe e le opere significative che sono opere sue più che azioni di uomini. Non desidero qui di seguito elencare tutti ciò che abbiamo già realizzato, quello che è in fase di realizzazione o quello che non si è potuto fare per diversi motivi. Mi preme sottolineare, piuttosto, che rimane nel segreto di ciascuno l’opera della salvezza. Questa è la vera opera per la quale il Padre ha inviato suo Figlio e ci ha donato il suo Spirito. Chi inizia a condurre l’opera è lo Spirito Santo che deve vincere anche le nostre frenesie “del fare”. Le fatiche episcopali sono molteplici e variegate: da quelle liturgiche a quelle formative, catechetiche; da quelle pastorali a quelle culturali; da quelle amministrative a quelle logistiche, strutturali; dai problemi interni a quelli esterni: sociali ed etici a quelli trascendenti. Un bilancio su quanto è stato compiuto lo potranno fare i vari uffici diocesani e i soggetti interessati Si possono consultare i Bollettini diocesani, la Raccolta degli scritti – 10 anni sulla Cattedra di San Gennaro -, alla quale ha contribuito l’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, il periodico Chiesa informa e gli Atti dei Convegni Pastorali. Ma il bilancio definitivo lo fa solo il Signore. A noi l’affidarci alla sua misericordia con il dovere di lode e ringraziamento. A me preme che il Vescovo sia ricordato per il primato dello spirituale sul materiale, della preghiera sull’azione, della vita interiore su quella esteriore. Vorrei che fosse ricordato come costruttore dell’opera interiore, della vita dello spirito, dello spazio dato a Dio rimanendo nell’umiltà, nella pazienza, nella capacità di dialogare e di sdrammatizzare.
5. Il Signore non ci chiede di risolvere tutti i problemi delle nostre comunità e della Chiesa. Sono molti i problemi irrisolti, molti dei quali, mio malgrado, ereditati. Ho cercato di affrontarli. Hanno pesato molto sul mio ministero ma non mi sono mai sentito né solo né abbandonato nel portare la Croce. Il Signore mi ha sempre ricompensato con la pace e la serenità interiore. Occorre che la Chiesa, nella sua dinamicità e creatività, faccia fronte alle problematiche e alle sfide che ci sono. Ricordiamo, però, che il futuro si gioca nell’amore, nel dialogo, nelle relazioni forti e fondate sulla collaborazione e la cooperazione, pur nei limiti e nelle fragilità. E’ ora di lasciare alle spalle le critiche, le opposizioni e le contrapposizioni, le lacerazioni e le beghe di parte sia in campo sociale che ecclesiale.
6. Cristo Signore sia unico Maestro e Signore, via, verità e vita. Quanto bisogno c’è di lui, quanto di ricerca di lui: vogliamo vedere il Signore! Cristo cammina con noi, con la sua Chiesa, per rivelarci il mistero del suo amore, il mistero della speranza condivisa. E’ questa la più radicale urgenza: un Gesù da conoscere, riconoscere, accogliere, credere, amare, obbedire e seguire. Con lui si può ricostruire un mondo più umano e più giusto.
7. Mi piace chiudere con una riflessione tratta da un testo indiamo sulle quattro tappe delle vita: imparare, insegnare, meditare e mendicare. Queste tappe sono tra lo intrecciate.
a. IMPARARE. E’ il tempo dello studio, della ricerca, dell’apprendimento, del discepolato umile e paziente.
b. INSEGNARE diventando maestri, testimoni, padri e madri, guide. In questa tappa si condivide quello che si è appreso con gli altri.
c. MEDITARE. Momento della ricarica, del rifornimento per non esaurirsi donando.
d. MENDICARE. E’ la tappa della solitudine intima e profonda. Alla fine giunge la vecchiaia e la malattia e allora, con umiltà, si deve stendere la mano per essere aiutati e sostenuti.
Cari fratelli e sorelle, è giunta per me quest’ultima tappa. Tutte sono state importanti per l’avventura unica che è stata la vita. Quest’ultima è, però, ancora più importante e decisiva per me: vi chiedo di ricordarmi nel Signore, di accompagnarmi con la preghiera e di affidarmi a Maria, nostra Madre, Madre della Grazia, delle grazie e della Misericordia.
Grazie di cuore a tutti voi!