La Bibbia, il libro sacro per cristiani ed ebrei, non è soltanto una lunga lettera di Dio all’uomo, nella quale il Signore rivela all’uomo qualcosa di sé, perché la Bibbia ci parla anche di noi stessi, e tante storie che vi sono narrate si rivelano pure essere la nostra storia. Prendo, a mo’ di esempio, gli eventi che videro protagonista Giuseppe, il figlio di Giacobbe e di Rachele, colui che i suoi fratelli vendettero come schiavo a dei mercanti madianiti in viaggio verso l’Egitto: ebbene, quella vicenda biblica ci riguarda, è anche nostra. Essa mostra inoltre quanto sia importante, per ogni esistenza umana, riconciliarsi con la propria storia, sanare la propria memoria, affinché gli eventi dolorosi e il male e subito non producano ulteriori ferite dentro di noi.
Una storia segnata dal potere distruttivo dell’invidia
Si tratta di una storia complessa, che trae origine da una complicata serie di vicissitudini familiari. Suo padre, Giacobbe, ebbe quattro mogli, dalle quali nacquero complessivamente dodici figli e non ci vuol troppo a capire in che modo nascessero contrasti e dissapori: alla rivalità tra le donne, che non esitavano a scendere in campo giocando ogni carta avessero a disposizione nella speranza che uno dei propri figli riuscisse ad aggiudicarsi la successione paterna, va infatti ad aggiungersi anche l’amara constatazione di come l’unione tra fratelli possa rivelarsi fragile.
Possiamo immaginare, perciò, l’aria che si respirava intorno a Giuseppe: Giacobbe, del resto, l’amava più di tutti, perché figlio di Rachele, l’unica donna che aveva veramente amato (le altre mogli, di fatto, gli erano state imposte). Di fronte a una così evidente predilezione, è facile intuire quale fosse la reazione dei fratelli. Il comportamento di Giacobbe non fu dettato da prudenza, dal momento che era evidente la sua preferenza verso Giuseppe e quella scoperta simpatia finiva per accrescere l’animosità dei fratelli nei riguardi del ragazzo, i quali non esitarono a venderlo a dei mercanti che lo portarono schiavo in Egitto. Qui Giuseppe fu acquistato da un padrone importante, Potifar, “consigliere del faraone e comandante delle guardie” (Gn 37,36).
Ben presto, Giuseppe acquistò prestigio e potere nella casa del suo padrone, sennonché la moglie di Potifar s’invaghì di lui e cominciò a insidiarlo in modo testardo. Poteva uno schiavo resistere alle pressioni della padrona? Quale schiavo avrebbe mai detto di no di fronte a una proposta del genere, che da un lato lasciava facilmente presagire ulteriori vantaggi e dall’altro inevitabili e terribili ritorsioni? Con Giuseppe, però, le cose non girarono nel modo consueto, in quanto egli non seppe rinunciare al dovere di fedeltà di cui si sentiva debitore verso Dio e verso gli uomini.
La donna era ben conscia del fatto che Giuseppe avrebbe potuto denunciarla, ma sapeva pure che si trattava di un’ipotesi assai remota, poiché nessun schiavo sarebbe stato tanto stupido da denunciare la moglie del padrone; eppure Giuseppe non era uno schiavo qualsiasi e inoltre godeva della fiducia di suo marito. Fu dunque lei stessa a denunciare Giuseppe, dicendo che aveva provato a farle violenza: “Il padrone lo prese e lo mise nella prigione, dove erano detenuti i carcerati del re” (Gn 39,20). La fedeltà a Dio e a un padrone che si era dimostrato buono verso di lui aveva quindi condotto Giuseppe in prigione: ciononostante, Dio non si dimenticò di lui.
Saper trarre il bene dal male
Sappiamo, infatti, che proprio la prigionia gli consentì di giungere al cospetto del faraone, al quale Giuseppe interpretò un sogno misterioso (delle 7 vacche e delle 7 spighe grasse e magre) divenuto angosciante, proponendogli anche un piano tecnico per superare la crisi che avrebbe imperversato nell’area con pesantissime ripercussioni che si sarebbero estese anche sulla Palestina. “Allora i dieci fratelli di Giuseppe scesero per acquistare il frumento dall’Egitto” (Gn 42,3), venendosi così a trovare a diretto contatto con colui che tanti anni prima avevano venduto e che ora per non riuscivano nemmeno più a riconoscere nelle sue nuove vesti di potentissimo funzionario del faraone.
“Io sono Giuseppe!”, disse questi ai fratelli rivelandosi loro: “È ancora vivo mio padre?” (Gn 45,3). In quel momento, il pensiero del governatore dell’Egitto corse – prima di ogni altra cosa – a Giacobbe. Egli sapeva che quelle erano le sue radici e sapeva pure di essere stato amato in modo particolare da suo padre, il quale aveva sofferto amaramente e tanto aveva pianto per la sua scomparsa. I fratelli rimasero atterriti da quella rivelazione, ma egli parlò loro con dolcezza: “Avvicinatevi a me” (Gn 45,4). Giuseppe aveva vissuto esperienze terribili a causa loro e della gelosia che essi provavano nei suoi confronti; avrebbe potuto sciorinare una lunga litania di disgrazie, delle quali ritenerli responsabili. Ci sono uomini a tal punto alimentati dal desiderio della vendetta, da superare patimenti e difficoltà unicamente nella speranza di potere, un giorno, presentare il conto a quanti sono stati origine e motivo dei loro guai.
Giuseppe, invece, in quel terribile frangente, fu capace di parlare ai suoi fratelli con dolcezza. Non sappiamo in qual modo egli abbia smaltito la rabbia che pure dovette provare. È vero, però, che nel momento decisivo, quando – dopo tanti anni – gli si presentarono davanti e in condizioni di enorme svantaggio, coloro che l’avevano rovinato, egli aveva ormai disinnescato le sue cariche esplosive. Certo, nel frattempo era diventato un uomo potentissimo, ma quel fatto non sarebbe bastato a pacificarlo: avrebbe potuto infatti nutrire rabbia per le sofferenze patite, per la perdita della figura paterna, per non aver potuto veder crescere il fratello, eppure… Davvero, quando una persona non è riconciliata con la propria storia trova continuamente motivi di biasimo, è sempre disposta a lamentarsi per le cose che non vanno, per ciò che non ha o che gli è stato tolto, piuttosto che a gioire per quello che possiede!
Giuseppe non fece sconti ai fratelli, non insabbiò la verità, non occultò i fatti; non si comportò, in definitiva, come un buonista desideroso di mostrare solo una faccia della medaglia: “Io – disse loro – sono Giuseppe, il vostro fratello, quello che voi avete venduto sulla via verso l’Egitto” (Gn 45,4). “Il vostro fratello”: essi non l’avevano accolto come tale ed egli ricordò loro il crimine tremendo che avevano commesso; ero vostro fratello – sembra volesse affermare – anche se per voi non era così, e perciò mi avete venduto. Nondimeno, sa sollevarsi dalle miserie e leggere gli eventi nella logica suprema del piano divino: “Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nella terra e per farvi vivere per una grande liberazione” (Gn 45,7). “Non vi rattristate e non vi crucciate” (Gn 45,5), disse perciò ai fratelli, ancora atterriti dall’averlo ritrovato in ruolo tanto importante.
Riconciliarsi con la propria storia, personale e comunitaria
“Non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio”: Giuseppe, ormai, leggeva tutto nella logica del piano divino. Il Signore aveva permesso che ciò accadesse, perché alla fine tutto si ricomponesse. Ciò non cancellava, tuttavia, le responsabilità personali: i fratelli, infatti, avevano peccato, e tali responsabilità non si potevano scaricare con la scusa che fossero strumentali alla realizzazione della volontà di Dio. Le loro, come le nostre scelte personali restano, e di esse si dovrà rendere conto. Detto ciò, la grandezza di Giuseppe è stata quella di volgere al bene una storia maledettamente ingarbugliata e piena di miserie. Avrebbe potuto covare rancore contro i fratelli che l’avevano venduto, e invece considerò con indulgenza che attraverso di loro era giunto in Egitto; avrebbe potuto inveire contro la moglie di Potifar, che l’aveva fatto gettare in prigione, ma sapeva che grazie a lei era riuscito a entrare a contatto con il faraone; avrebbe potuto recriminare contro il capo dei coppieri che si era dimenticato di lui, ma proprio quell’iniziale negligenza gli permise di rendere un gran servigio al faraone e a tutto l’Egitto, consentendogli di giungere a un grado tanto elevato di responsabilità. In definitiva, egli seppe vedere il lato bello e quello brutto delle cose; non si macerò sul secondo, ma gioì del primo: è questo il segreto della vita!
Come dicevo all’inizio, la storia di Giuseppe è anche la nostra. Chiudo questa parte della mia relazione con alcune parole di Agostino d’Ippona; nel Commento ai Salmi, egli medita in più luoghi sulla storia di Giuseppe, soprattutto quando espone i versetti 17-23 del salmo 104. In coerenza con tanta letteratura patristica, Agostino vi presenta Giuseppe quale prefigurazione del Cristo, nella convinzione che “in quella storia sono state scritte solo le cose […] sufficienti per simboleggiare nella trama della narrazione gli avvenimenti futuri”. Accogliamo dunque il suo invito a considerare “in questo avvenimento grande e inevitabile [la vendita di Giuseppe ai mercanti madianiti] come Dio si serva in bene delle opere cattive degli uomini allo stesso modo che questi, invece, si servono male delle opere buone di Dio” (Opere di sant’Agostino, XXVII, Roma 19902, p. 801).
È pertanto necessario riconciliarsi con la propria storia, quella che Dio ci dona e ci chiede di vivere, e questo a livello sia personale che comunitario. A livello personale, altrimenti diventeremmo persone – laici o consacrati, uomini o donne che siamo – scontente, invidiose, inacidite, arrabbiate contro tutto e tutti, pronte sempre a mettere il dito sulle piaghe altrui occultando le proprie, molte volte – purtroppo – ben note. Tuttavia, anche a livello comunitario dobbiamo riconciliarci con la nostra storia, altrimenti ci ritroveremo relegati al compito di laudatores temporis acti, rimpiangendo i fasti dei tempi passati – come scrive ancora il grande Agostino – proprio perché non sono più nostri. In realtà, già alcuni secoli prima il Qoèlet aveva ammonito: “Non dire: «Come mai i tempi antichi erano migliori del presente?», perché una domanda simile non è ispirata a saggezza” (7,10).
Le sfide che ci stanno davanti
Ebbene, invece che rimpiangere il passato, è quanto mai necessario – e tanto più nell’odierno contesto culturale – vedere in che modo la Chiesa possa essere, di volta in volta, il lievito che fermenta la pasta (Mt 13,33), la città posta sul monte a tutti visibile (Mt 5,14), la lampada posta sul lucernario che illumina tutti coloro che sono nella casa (Mt 5,15). Dobbiamo, in definitiva, guardare avanti, non indietro! Solo se riconciliati con la nostra storia personale ed ecclesiale potremmo infatti cogliere con sguardo profetico le sfide che ci si presentano davanti. Ne indico tre.
Anzitutto, la crisi numerica. In questo territorio ci troviamo di fronte a un esodo che sembra inarrestabile; come scrivevano i vescovi della Metropolia beneventana nella lettera Mezzanotte del Mezzogiorno?, resa pubblica il 13 maggio di quest’anno, “molti lasciano i propri paesi per cercare lavoro all’estero o nel Nord Italia, tanto che le nostre province perdono ogni anno un numero di abitanti equivalente a quello di un paese intero. Paradossalmente, esse producono il miglior risultato per quanto riguarda i laureati in età tra i 24 e i 39 anni, tuttavia sono proprio i laureati a lasciare la Campania più povera!”. A ciò bisogna aggiungere la crescita – anch’essa progressiva – di una mentalità secolarizzata, che spinge molti a prescindere dal dato religioso, a vivere come se Dio non ci fosse. Le nostre forze, quindi, si riducono sempre più di numero mentre cresce l’età media dei partecipanti a celebrazioni e incontri. Dobbiamo prendere atto di questa situazione, non per prorompere in lamenti quanto, piuttosto, per adeguare la nostra azione e renderla efficace anche in un quadro così sostanzialmente mutato.
A questa prima sfida se ne aggiunge un’altra, vale a dire la scommessa sui contenuti. Intendo dire, come anticipavo già lo scorso anno, che tali problemi non possono essere superati “incentivando il devozionismo”. Occorre invece un “ascolto più assiduo e diffuso della Parola di Dio”. Fin dalla mia lettera pastorale Camminare insieme scrivevo che è necessario “porre la Parola di Dio al centro di tutta l’azione pastorale. Essa, «annunziata dalla Chiesa, esige di essere posta sulla sommità del lucerniere, cioè all’apice dell’onore e dell’impegno di cui la Chiesa è capace» (Massimo il Confessore, Risposte a Talassio, risp. 63): anche per questo il luogo della proclamazione della Parola veniva sempre posto in alto, perché fosse plasticamente visibile il principio teologico che la Chiesa tutta sta sotto la Parola di Dio”.
Infine, la sfida più grande, che io chiamo il tesoro della comunione. Sempre nella già citata lettera pastorale, scrivevo dell’importanza di “fare anche meno cose, ma farle insieme, a livello sia diocesano che parrocchiale: si assiste, quasi dappertutto, a un proliferare d’iniziative, spesso sovrapponibili l’una all’altra, con un’inevitabile dispersione di energie e di risorse, oltre che dagli esiti inadeguati e demotivanti”. Quante volte, infatti, capita di lavorare in contemporanea a iniziative parallele, che potrebbero benissimo raccordarsi o anche unificarsi, aprendosi in tal modo a maggiori risultati? “Agire insieme – cito ancora dalla lettera Camminare insieme – darebbe sicuramente risultati più rilevanti”.
Parola, progettualità, comunione
Alla crisi numerica si risponde, come dicevo introducendo i lavori del Forum degli Amministratori campani dello scorso giugno, rifiutando di lasciarsi andare alla rassegnazione, come se i giochi, ormai, fossero fatti e l’unica possibilità rimastaci fosse intestardirsi in un accanimento terapeutico finalizzato a ritardare, quanto più possibile, la morte dei nostri territori. È necessario, tuttavia, agire non in maniera disorganica o, ancor peggio, scomposta, ma con una progettualità profetica, con “un progetto strategico di lunga gittata che miri a privilegiare l’interesse comune, il quale solo può consentire il benessere di tutti, singole persone come enti locali” (Mezzanotte del Mezzogiorno?). In tal senso, la comunità ecclesiale ha cercato di indicare un metodo di lavoro con il già accennato Forum, che si è rivelato un vero e proprio laboratorio di idee del quale ha preso atto anche la Regione Campania, invitando ufficialmente al Tavolo per le Aree interne i vescovi di Avellino e Benevento.
Il metodo è quello che identificavo come sfida più grande, vale a dire il camminare insieme, il “fare rete, quindi, gioco di squadra, programmando insieme una politica di sviluppo” (ibidem). Se questo vale per l’azione politico-amministrativa, a maggior ragione vale anche per l’azione pastorale, nella quale il fare rete, il fare gioco di squadra è essenziale per la comunione, elemento costitutivo della vita ecclesiale che trae la sua scaturigine dal mistero trinitario. In quanto icona della Trinità, infatti, la Chiesa è chiamata a ricostruire al proprio interno quelle dinamiche che trovano il proprio modello ideale nella comunione trinitaria. Attualissime risultano ancora le affermazioni di Giovanni Paolo II: “Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo” (Novo millennio ineunte, n. 43). La grande Veglia di Pentecoste, vissuta insieme in questa chiesa cattedrale l’8 giugno scorso, continuata poi con l’agape fraterna presso l’Oratorio “Angela Merici”, ci ha fatto gustare – io credo – la bellezza dello stare insieme nella preghiera e nella gioia.
Ritengo che un modo effettivo ed efficace per favorire la comunione nel presbiterio sia quello di partecipare agli incontri di formazione promossi in ambito diocesano o zonale: credo sia un dovere di coscienza al quale ogni confratello non può sottrarsi. È vero poi che strumento di comunione sono anzitutto gli organismi di partecipazione ecclesiale, quali il Consiglio Pastorale (diocesano, zonale, parrocchiale) e il Consiglio per gli Affari Economici (diocesano e parrocchiale), quest’ultimo obbligatorio a norma del Codice di diritto canonico (can. 492 § 1 per il Consiglio diocesano; can. 537 per il Consiglio parrocchiale). L’anno passato dicevo che era necessario far funzionare davvero il Consiglio Pastorale Zonale: ebbene, bisogna proseguire in tale direzione, perché quest’organismo non funziona dappertutto, nel senso che è davvero attivo e operante.
La preparazione ai sacramenti dell’Iniziazione Cristiana
L’anno che ci sta davanti sarà caratterizzato soprattutto dall’attuazione del decreto riguardante le Norme pastorali sulla preparazione e celebrazione dei sacramenti dell’Iniziazione Cristiana, emanato nel luglio scorso. Il decreto mira anzitutto a unificare i tempi della formazione, così da evitare che parrocchie anche vicine, se non addirittura confinanti, abbiano una durata differente del tempo di preparazione, favorendo in tal modo l’esodo di coloro che sono alla ricerca di “sconti”. Non si può giocare con certe cose, né si possono dare a buon mercato i sacramenti, poiché il tessuto sociale non garantisce più nulla e non è raro trovarsi di fronte a bambini i quali, all’inizio del percorso di catechesi, non sono neppure capaci di farsi il segno di croce.
Qualcuno obietterà che c’è difficoltà nel reperire i catechisti, qualcun altro che s’incontreranno resistenze da parte dei genitori: alla prima obiezione rispondo che il decreto, riconoscendo valido l’itinerario di fede compiuto dai ragazzi che fanno parte dell’Azione Cattolica Ragazzi o dell’Agesci per l’ammissione all’Eucaristia e alla Cresima, consentirà anche di reperire nuove forze per la catechesi; inoltre, parrocchie diverse potranno gemellarsi, dato che mentre alcune comunità hanno ragazzi, ma difettano di catechisti, in altre invece si verifica l’esatto contrario, vale a dire che si hanno più catechisti che ragazzi: queste ultime potrebbero perciò venire in soccorso delle comunità che vivono una situazione diametralmente opposta. Quanto alle resistenze dei genitori, essi sono molto probabilmente gli stessi che, anche più di una volta alla settimana, accompagnano i loro figli in piscina, in palestra o alla scuola calcio, spesso sobbarcandosi distanze di chilometri e chilometri senza battere ciglio, ma poi si lamentano in tutti i modi quando si tratta del catechismo. Bisogna, allora, con molta dolcezza, invitarli a fare delle scelte. Al tempo stesso, però, dobbiamo pure interrogarci sul perché la nostra catechesi invogli così poco i ragazzi a partecipare. Credo, a questo riguardo, che l’innesto nella catechesi per l’iniziazione cristiana della metodologia seguita nell’Azione Cattolica Ragazzi e nell’Agesci possa senz’altro costituire uno stimolo efficace affinché tutta la nostra catechesi sia più pronta all’adozione di un metodo dinamico, basato sull’esperienza.
Il nuovo decreto, che ha accolto le indicazioni della Conferenza Episcopale Italiana, emanato in attesa di un Direttorio per la celebrazione e la pastorale dei Sacramenti nella Diocesi di Benevento, rafforza anche l’urgenza di una seria formazione dei catechisti, che dovrà essere perseguita con costanza e metodo, seguendo le indicazioni dell’Ufficio Catechistico Diocesano. Credo che, pure in tal caso, sia opportuno e funzionale organizzarsi in ambito zonale o, perlomeno, interparrocchiale.
Verso orizzonti futuri
Quanto alla scommessa sui contenuti, l’unica risposta adeguata che io conosca sta – come dicevo – nel ridare centralità alla Parola di Dio. Sant’Ambrogio, il quale riteneva che l’Evangelo fosse corpo di Cristo (PL 26,1334B), ci ricorda che “noi ascoltiamo Cristo leggendo le Scritture” (PL 26,50A). Il metodo della Lectio divina, che in questi anni ho cercato di promuovere, resta indubbiamente una via da percorrere per procedere in tale direzione. Non dobbiamo, infatti, cercare altre e nuove rivelazioni, ma meditare con continuità la Rivelazione contenuta nelle Sacre Scritture, trasmessa e approfondita dalla Tradizione, mediata dal Magistero ecclesiale. Per questo dico oggi a tutti che, a partire dall’anno prossimo, terminato il triennio in cui abbiamo cercato di far funzionare le zone pastorali e il lavoro interparrocchiale, pur continuando a insistere su questa metodologia di lavoro, concentreremo i nostri sforzi per ridare centralità alla Parola. Si tratta di un cammino che cominceremo fin dal prossimo Convegno ecclesiale, incentrato su questo tema, che si svolgerà nei giorni 15-16-17 giugno 2020.
Chiudo questa mia relazione con un inno di lode
“al beato e unico Sovrano,
Re dei re e Signore dei signori,
il solo che possiede l’immortalità
e abita una luce inaccessibile:
A lui onore e potenza per sempre” (1Tm 6,15-16)
Benevento, basilica cattedrale, 15 settembre 2019 +Felice Accrocca