Cari amici!
La Diocesi di Benevento, nel Congresso Eucaristico preparato con preghiera, riflessione e concreti gesti di carità, sotto la guida del suo Pastore, Mons. Serafino Sprovieri, si è proposta di approfondire il rapporto tra il mistero più profondo della Chiesa e il suo impegno più concreto per la servizio di condivisione, di riconciliazione e di unità per poter meglio celebrare il sacramento e vivere più efficacemente il comandamento nuovo di Cristo: “amatevi gli uni gli altri”. Spesso, nella Chiesa antica, l’Eucaristia veniva chiamata anche semplicemente Agape- amor , cioè pax-pace; I cristiani di allora esprimevano così incisivamente il legame inscindibile tra il mistero della presenza nascosta di Dio e la prassi del servizio alla pace, dell’essere pace dei cristiani. Non c’era differenza tra ciò che oggi si contrappone facilmente come ortodossia e ortoprassi, come retta dottrina e retta azione, in cui risuona in generale un tono piuttosto sprezzante nei confronti della parola ortodossa: chi sta dalla parte della retta dottrina, si mostra con un cuore limitato, rigido, potenzialmente intollerante. In altre parole, tutto dipenderebbe dalla retta azione, mentre la dottrina potrebbe sempre essere discussa. Sarebbero importanti solo i frutti che la dottrina produce, ma sarebbe indifferente in che modo si compiono le azioni giuste. Una tale contrapposizione sarebbe stata incomprensibile e inaccettabile per la Chiesa antica, già per il fatto che la parola ortodossia non significa in alcun modo retta dottrina, ma autentico culto e glorificazione di Dio. C’era la convinzione che tutto dipendesse dall’essere nel giusto rapporto con Dio, dal sapere cosa gli piace e da come rispondergli nel modo giusto. Pertanto, Israele amava la legge: per mezzo di essa si conosceva qual era la volontà di Dio; si sapeva vivere rettamente e si sapeva onorare Dio nel modo giusto: facendo la sua volontà, che mette ordine nel mondo, aprendolo verso l’alto. E questa era la nuova gioia dei cristiani, che ora, finalmente, da Cristo, sapevano come Dio doveva essere glorificato e come, in questo modo, il mondo diventa giusto. Che le due cose vadano insieme era già stato annunziato dagli angeli nella Notte Santa: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra a coloro che egli ama”,(Lc2, 14). La gloria di Dio e la pace sulla terra sono inseparabili. Dove Dio è escluso, non c’è pace sulla terra, e nessuna ortoprassi senza Dio può essere salvata. In effetti, non esiste una prassi semplicemente equa, senza la conoscenza di ciò che è giusto. La volontà senza conoscenza è cieca, e lo stesso vale per le azioni, per l’ortoprassi, che sono cieche senza conoscenza e conducono all’abisso. Il grande errore del marxismo è stato quello di dirci che il mondo si era già riflesso abbastanza e che, finalmente, valeva la pena cambiarlo. Ma se non sappiamo in quale direzione dovremmo cambiarlo, se non ne comprendiamo il significato e lo scopo intrinseci, allora il semplice cambiamento diventa distruzione, lo abbiamo visto e continuiamo a vederlo. Ma è vero anche il contrario: la sola dottrina, se tu non sei vita e azione, diventa discorso inutile e quindi anche vuoto. La verità è concreta. Conoscenza e azione sono strettamente legate, così come fede e vita. È proprio questo che volevi esprimere con il tuo Tema, e ora ci soffermiamo a riflettere.
1. Eucaristia
Cercherò di chiarire le tre parole chiave che avete scelto come Tema del vostro Congresso Eucaristico. “Eucaristia” è oggi e giustamente il nome più usato per il Sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo, che il Signore ha istituito alla vigilia della sua passione. Nella Chiesa antica esistevano a questo scopo una serie di altri nomi, Agape e Pax , che abbiamo già citato. Parallelamente ad esse c’era, ad esempio, anche l’assemblea della sinassi , l’incontro di molte persone. Per i protestanti questo Sacramento è chiamato “Cena”,con l’intenzione secondo la tendenza di Lutero, per il quale solo la Scrittura aveva il valore di ritornare completamente all’origine biblica. Infatti a San Paolo questo Sacramento è chiamato “Cena del Signore”. Ma è significativo che questo titolo scomparve ben presto e dal II secolo in poi cessò di essere utilizzato. E per quale motivo? Era forse il punto culminante del Nuovo Testamento, come pensava Lutero, o che significato ha? In realtà, il Signore aveva indubbiamente istituito il suo Sacramento durante un pasto, più precisamente la cena pasquale ebraica, e quindi all’inizio era stato collegato anche con un incontro per il pasto. Ma il Signore non aveva comandato che si ripetesse la cena pasquale, che costituiva la cornice, ma non era suaSacramento, il tuo nuovo regalo. In ogni caso, la cena pasquale poteva essere celebrata solo una volta all’anno. Di conseguenza, la celebrazione dell’Eucaristia era separata dall’incontro per la cena, in quanto era in atto l’accento sulla legge, il passaggio a una Chiesa di ebrei e gentili, ma soprattutto di gentili. Il legame con la cena si rivela così esterno, anzi occasione di equivoci e abusi, come mostra ampiamente Paolo nella prima Lettera ai Corinzi. Così la Chiesa, assumendo una sua specifica configurazione, ha progressivamente liberato il dono specifico del Signore, che era nuovo e permanente, dall’antico contesto e gli ha dato la propria forma. Ciò è avvenuto, da un lato, per il legame con la liturgia della parola, che ha nella sinagoga il suo modello; per un altro,
Si capì che l’essenziale nell’evento dell’Ultima Cena non era il mangiare l’agnello e gli altri piatti della tradizione, ma la grande preghiera di lode, che ora si incentrava sulle stesse parole di Gesù: con esse aveva trasformato la sua morte in un’offerta di se stesso, perché ora possiamo rendere grazie per la sua morte. Sì, solo ora è possibile ringraziare Dio senza riserve, perché la morte più orribile del Redentore e la morte di tutti noi si è trasformata grazie ad un atto di amore nel dono della vita. L’Eucaristia è stata così riconosciuta come la realtà essenziale dell’Ultima Cena, quella che oggi chiamiamo la Preghiera Eucaristica, che deriva direttamente dalla preghiera che Gesù fece alla vigilia della sua Passione ed è il centro del nuovo sacrificio spirituale, che è perché diversi Padri hanno designato l’Eucaristia semplicemente come “oratio” (Preghiera), come “sacrificio della parola”, come sacrificio spirituale, ma che diventa anche materia trasformata: il pane e il vino diventano il corpo e il sangue di Cristo, il cibo nuovo, che sostiene per la risurrezione, per la vita eterna. Così, l’intera struttura delle parole e degli elementi materiali diventa un assaggio dell’eterno banchetto nuziale. Alla fine, dobbiamo tornare a parlare ancora una volta di questa connessione. Qui l’importante era capire meglio perché noi, come cristiani cattolici, non chiamiamo questo Sacramento Cena, ma Eucaristia: la Chiesa nascente ha lentamente dato a questo Sacramento la sua specifica configurazione, e proprio così, sotto la guida dello Spirito Santo, ha individuato bene e correttamente rappresentato con segni, qual è veramente la sua essenza, ciò che il Signore ha veramente “istituito” quella notte. come sacrificio spirituale, ma che diventa anche materia trasformata: il pane e il vino diventano il corpo e il sangue di Cristo, il cibo nuovo, che sostiene per la risurrezione, per la vita eterna. Così, l’intera struttura delle parole e degli elementi materiali diventa un assaggio dell’eterno banchetto nuziale. Alla fine, dobbiamo tornare a parlare ancora una volta di questa connessione. Qui l’importante era capire meglio perché noi, come cristiani cattolici, non chiamiamo questo Sacramento Cena, ma Eucaristia: la Chiesa nascente ha lentamente dato a questo Sacramento la sua specifica configurazione, e proprio così, sotto la guida dello Spirito Santo, ha individuato bene e correttamente rappresentato con segni, qual è veramente la sua essenza, ciò che il Signore ha veramente “istituito” quella notte. come sacrificio spirituale, ma che diventa anche materia trasformata: il pane e il vino diventano il corpo e il sangue di Cristo, il cibo nuovo, che sostiene per la risurrezione, per la vita eterna. Così, l’intera struttura delle parole e degli elementi materiali diventa un assaggio dell’eterno banchetto nuziale. Alla fine, dobbiamo tornare a parlare ancora una volta di questa connessione. Qui l’importante era capire meglio perché noi, come cristiani cattolici, non chiamiamo questo Sacramento Cena, ma Eucaristia: la Chiesa nascente ha lentamente dato a questo Sacramento la sua specifica configurazione, e proprio così, sotto la guida dello Spirito Santo, ha individuato bene e correttamente rappresentato con segni, qual è veramente la sua essenza, ciò che il Signore ha veramente “istituito” quella notte. ma che diventa anche materia trasformata: il pane e il vino diventano il corpo e il sangue di Cristo, il cibo nuovo, che sostiene per la risurrezione, per la vita eterna. Così, l’intera struttura delle parole e degli elementi materiali diventa un assaggio dell’eterno banchetto nuziale. Alla fine, dobbiamo tornare a parlare ancora una volta di questa connessione. Qui l’importante era capire meglio perché noi, come cristiani cattolici, non chiamiamo questo Sacramento Cena, ma Eucaristia: la Chiesa nascente ha lentamente dato a questo Sacramento la sua specifica configurazione, e proprio così, sotto la guida dello Spirito Santo, ha individuato bene e correttamente rappresentato con segni, qual è veramente la sua essenza, ciò che il Signore ha veramente “istituito” quella notte. ma che diventa anche materia trasformata: il pane e il vino diventano il corpo e il sangue di Cristo, il cibo nuovo, che sostiene per la risurrezione, per la vita eterna. Così, l’intera struttura delle parole e degli elementi materiali diventa un assaggio dell’eterno banchetto nuziale. Alla fine, dobbiamo tornare a parlare ancora una volta di questa connessione. Qui l’importante era capire meglio perché noi, come cristiani cattolici, non chiamiamo questo Sacramento Cena, ma Eucaristia: la Chiesa nascente ha lentamente dato a questo Sacramento la sua specifica configurazione, e proprio così, sotto la guida dello Spirito Santo, ha individuato bene e correttamente rappresentato con segni, qual è veramente la sua essenza, ciò che il Signore ha veramente “istituito” quella notte. che sostiene alla risurrezione, alla vita eterna. Così, l’intera struttura delle parole e degli elementi materiali diventa un assaggio dell’eterno banchetto nuziale. Alla fine, dobbiamo tornare a parlare ancora una volta di questa connessione. Qui l’importante era capire meglio perché noi, come cristiani cattolici, non chiamiamo questo Sacramento Cena, ma Eucaristia: la Chiesa nascente ha lentamente dato a questo Sacramento la sua specifica configurazione, e proprio così, sotto la guida dello Spirito Santo, ha individuato bene e correttamente rappresentato con segni, qual è veramente la sua essenza, ciò che il Signore ha veramente “istituito” quella notte. che sostiene alla risurrezione, alla vita eterna. Così, l’intera struttura delle parole e degli elementi materiali diventa un assaggio dell’eterno banchetto nuziale. Alla fine, dobbiamo tornare a parlare ancora una volta di questa connessione. Qui l’importante era capire meglio perché noi, come cristiani cattolici, non chiamiamo questo Sacramento Cena, ma Eucaristia: la Chiesa nascente ha lentamente dato a questo Sacramento la sua specifica configurazione, e proprio così, sotto la guida dello Spirito Santo, ha individuato bene e correttamente rappresentato con segni, qual è veramente la sua essenza, ciò che il Signore ha veramente “istituito” quella notte. dobbiamo tornare a parlare di questo legame ancora una volta. Qui l’importante era capire meglio perché noi, come cristiani cattolici, non chiamiamo questo Sacramento Cena, ma Eucaristia: la Chiesa nascente ha lentamente dato a questo Sacramento la sua specifica configurazione, e proprio così, sotto la guida dello Spirito Santo, ha individuato bene e correttamente rappresentato con segni, qual è veramente la sua essenza, ciò che il Signore ha veramente “istituito” quella notte. dobbiamo tornare a parlare di questo legame ancora una volta. Qui l’importante era capire meglio perché noi, come cristiani cattolici, non chiamiamo questo Sacramento Cena, ma Eucaristia: la Chiesa nascente ha lentamente dato a questo Sacramento la sua specifica configurazione, e proprio così, sotto la guida dello Spirito Santo, ha individuato bene e correttamente rappresentato con segni, qual è veramente la sua essenza, ciò che il Signore ha veramente “istituito” quella notte.
Proprio esaminando il processo con cui il Sacramento ha assunto progressivamente la sua forma, si comprende in modo molto bello e profondo il legame tra Scrittura e Tradizione. Una semplice rassegna storica della Bibbia considerata isolatamente non ci trasmette sufficientemente la visione di ciò che è essenziale; si manifesta come tale solo nel contesto vitale della Chiesa, che ha vissuto la Scrittura e quindi l’ha compresa nella sua più profonda intenzionalità e l’ha resa accessibile anche a noi.
2. Comunione
La seconda parola, che avete scelto come Tema del vostro Congresso Eucaristico, Comunione, è una parola oggi in voga. Si tratta infatti di una delle parole più profonde e caratteristiche della tradizione cristiana, ma proprio per questo è molto importante comprenderla in tutta la sua profondità e grandezza di significato. Forse qui posso inserire un’osservazione del tutto personale. Quando, insieme ad alcuni amici, soprattutto Henri de Lubac, Hans Urs von Balthasar, Louis Bouyer, Jorge Medina, ho avuto l’idea di fondare una rivista, nella quale intendevamo approfondire e sviluppare l’eredità del Concilio, abbiamo iniziato cercare un nome che esprimesse in modo più completo con una sola parola l’intenzione di questo strumento.
Ma già nell’ultimo anno del Concilio Vaticano II, nel 1965, era stata fondata una rivista, che doveva essere, per così dire, la voce permanente del Concilio e del suo spirito, e per questo si chiamava Concilium. A questo proposito ha avuto un ruolo importante il fatto che Hans Küng, nel suo libro “Strutture della Chiesa”, abbia pensato di aver scoperto un’equivalenza di significato tra le parole “Ekklesia” (Chiesa) e “Concilium”. All’origine dei due termini c’è la parola greca “Kalein” (chiamare): la prima parola (Ekklesia), infatti, significa: convocare, e la seconda parola (Concilium), significa convocare, quindi, in definitiva, i due significano la stessa cosa. Da ciò potrebbe derivare una sorta di identità tra i concetti di Chiesa e Concilio. Per sua natura, la Chiesa sarebbe il continuo Consiglio di Dio nel mondo. Pertanto, la Chiesa deve essere concepita in modo conciliare e realizzata alla maniera di un Concilio; al contrario, il Concilio sarebbe la realizzazione più intensa in assoluto della Chiesa, cioè il vertice della Chiesa. Negli anni successivi ho seguito per qualche tempo questa concezione, a prima vista, abbastanza illuminante, con la quale la Chiesa si presentava come l’assemblea permanente del consiglio di Dio nel mondo. Le conseguenze pratiche di questa concezione, in realtà, non sono da trascurare, e il suo fascino è del tutto immediato. Era anche giunto alla conclusione che la visione di Hans Küng conteneva indubbiamente qualcosa di vero e di serio, ma che necessitava anche di notevoli correzioni.
Vorrei riassumere molto brevemente il risultato dei miei studi in quel periodo. Sia dalla ricerca filologica che dalla comprensione teologica della Chiesa e del Concilio nei tempi antichi si è giunti alla conclusione che un Concilio può certamente essere un importante compimento vitale della Chiesa, ma che la Chiesa stessa è in realtà qualcosa di più e la sua essenza va più in profondità . Il Concilio è qualcosa che fa la Chiesa, ma la Chiesa non è un Concilio. Non esiste soprattutto deliberare, ma vivere la parola che ci è stata data. Come concetto base, con cui si propone l’essenza stessa della Chiesa, ho trovato la parola koinonia -comunione. La Chiesa tiene i Concili, ma lo ècomunione, così potrei riassumere l’essenza della mia ricerca in quel momento. Pertanto, la sua struttura non va descritta con la parola “conciliare”, bensì con la parola “comunione”.
Quando, nel 1969, ho proposto queste idee con il libro “Il nuovo popolo di Dio”, il concetto di comunione non era ancora molto diffuso nei dibattiti teologici ed ecclesiali pubblici; quindi anche le mie idee in questo senso non hanno ricevuto molta attenzione. Comunque per me sono stati un punto di partenza nella ricerca di un titolo per la nuova rivista, che poi abbiamo chiamato “Communio”. Il concetto acquistò importanza pubblica solo con il Sinodo dei Vescovi del 1985. Fino a quella data l’espressione “Popolo di Dio” si era affermata come il nuovo concetto chiave per la Chiesa, in cui si ritenevano condensate in modo sintetico le intenzioni del Vaticano II. Questo potrebbe anche essere vero se l’espressione fosse stata intesa in tutta la profondità del suo significato biblico e nell’ampio contesto, in cui il Consiglio lo ha utilizzato. Ma quando una parola grossa diventa aslogan , gli viene inevitabilmente assegnato un limite, anzi viene banalizzato. Così, il Sinodo del 1985 ha cercato un nuovo principio, dando centralità alla parola comunione, che si riferisce soprattutto al centro eucaristico della Chiesa e, in tal modo, fissa la comprensione della Chiesa nel luogo più intimo dell’incontro tra Gesù e gli uomini, nell’atto della sua consegna da parte nostra.
Non si poteva evitare che questa grande parola fondamentale del Nuovo Testamento, venisse isolata e usata come slogan, ha subito una limitazione. Anzi, è stato persino banalizzato. Oggi chi parla di ecclesiologia di comunione vuole dire solitamente due cose: opporre un’ecclesiologia plurale, per così dire federativa, ad una concezione centralista della Chiesa, e intendere sottolineare il rapporto reciproco delle Chiese locali nello scambio di donazioni e ricezione, nonché il pluralismo delle sue forme culturali espressive nel culto, nella disciplina e nella dottrina. Anche dove queste tendenze non sono sviluppate in dettaglio, la parola comunione è generalmente intesa in senso orizzontale come rete molteplice di relazioni comunitarie. Il concetto di una struttura di comunione ecclesiale differisce così dal concetto di una visione conciliare sopra richiamata: domina l’orizzontale, l’idea dell’autodeterminazione in una vasta comunità.
Naturalmente, c’è molta verità in questo. Ma l’impostazione di fondo non è corretta, e si è persa di vista la vera profondità di ciò, che sia il Nuovo Testamento che il Vaticano II e anche il Sinodo dei Vescovi del 1985 intendevano affermare. Per chiarire questo significato fondamentale del concetto di Communio, cito ora brevemente due importanti testi del Nuovo Testamento su Communio. Il primo si trova in 1 Cor10, 16s, dove Paolo ci dice: «Il calice della benedizione che benediciamo, non è forse partecipazione al sangue di Cristo? E il pane che spezziamo, non è forse partecipazione al Corpo di Cristo? un solo pane, noi, pur essendo molti, formiamo un solo corpo, perché tutti partecipiamo dello stesso pane». Il concetto di comunione è, in primo luogo, ancorato nel Santissimo Sacramento dell’Eucaristia, motivo per cui ancora oggi, nel linguaggio della Chiesa, chiamiamo giustamente la ricezione di questo sacramento semplicemente “comunione”. In tal modo diventa immediatamente evidente il significato sociale molto pratico di questo evento sacramentale, e questo con una radicalità che non si può raggiungere con visioni esclusivamente orizzontali. Qui ci viene detto che attraverso il sacramento entriamo in un certo senso nella comunione di sangue con Gesù Cristo, dove il sangue, nella visione ebraica significa “vita”, e quindi si afferma una compenetrazione della vita di Cristo con la nostra. “Sangue” nel contesto dell’Eucaristia significa ovviamente anche dono, esistenza, che, per così dire, viene versato, offerto per noi ea noi. In tal modo, la comunione di sangue è anche inserimento nella dinamica di questa vita, di questa dinamizzazione “sangue versato” della nostra esistenza, grazie alla quale egli stesso può diventare un essere per il prossimo, come possiamo vedere chiaramente davanti a noi in il cuore aperto di Cristo. Da un certo punto di vista, le parole sul pane sono ancora più impressionanti. È la comunione con il corpo di Cristo, che Paolo paragona all’unione dell’uomo e della donna (cfr. e quindi si afferma una compenetrazione della vita di Cristo con la nostra. “Sangue” nel contesto dell’Eucaristia significa ovviamente anche dono, esistenza, che, per così dire, viene versato, offerto per noi ea noi. In tal modo, la comunione di sangue è anche inserimento nella dinamica di questa vita, di questa dinamizzazione “sangue versato” della nostra esistenza, grazie alla quale egli stesso può diventare un essere per il prossimo, come possiamo vedere chiaramente davanti a noi in il cuore aperto di Cristo. Da un certo punto di vista, le parole sul pane sono ancora più impressionanti. È la comunione con il corpo di Cristo, che Paolo paragona all’unione dell’uomo e della donna (cfr. e quindi si afferma una compenetrazione della vita di Cristo con la nostra. “Sangue” nel contesto dell’Eucaristia significa ovviamente anche dono, esistenza, che, per così dire, viene versato, offerto per noi ea noi. In tal modo, la comunione di sangue è anche inserimento nella dinamica di questa vita, di questa dinamizzazione “sangue versato” della nostra esistenza, grazie alla quale egli stesso può diventare un essere per il prossimo, come possiamo vedere chiaramente davanti a noi in il cuore aperto di Cristo. Da un certo punto di vista, le parole sul pane sono ancora più impressionanti. È la comunione con il corpo di Cristo, che Paolo paragona all’unione dell’uomo e della donna (cfr. si offre per noi e a noi. In tal modo, la comunione di sangue è anche inserimento nella dinamica di questa vita, di questa dinamizzazione “sangue versato” della nostra esistenza, grazie alla quale egli stesso può diventare un essere per il prossimo, come possiamo vedere chiaramente davanti a noi in il cuore aperto di Cristo. Da un certo punto di vista, le parole sul pane sono ancora più impressionanti. È la comunione con il corpo di Cristo, che Paolo paragona all’unione dell’uomo e della donna (cfr. si offre per noi e a noi. In tal modo, la comunione di sangue è anche inserimento nella dinamica di questa vita, di questa dinamizzazione “sangue versato” della nostra esistenza, grazie alla quale egli stesso può diventare un essere per il prossimo, come possiamo vedere chiaramente davanti a noi in il cuore aperto di Cristo. Da un certo punto di vista, le parole sul pane sono ancora più impressionanti. È la comunione con il corpo di Cristo, che Paolo paragona all’unione dell’uomo e della donna (cfr. ancora più impressionanti sono le parole sul pane. È la comunione con il corpo di Cristo, che Paolo paragona all’unione dell’uomo e della donna (cfr. ancora più impressionanti sono le parole sul pane. È la comunione con il corpo di Cristo, che Paolo paragona all’unione dell’uomo e della donna (cfr.1 Colore 6, 17s; Ef5, 26-32). Paolo spiega questo concetto da un altro punto di vista, quando dice: è un unico pane, quello che tutti riceviamo qui. Questo ha un significato molto forte: il “pane” la manna nuova che Dio ci offre è l’unico e medesimo Cristo per tutti. Egli è infatti l’unico, identico e stesso Signore che riceviamo nell’Eucaristia, o meglio: che ci riceve e ci prende a sé. Sant’Agostino ha espresso questo concetto con una parola, che ha inteso in una specie di visione: mangia il pane dei forti, infatti non mi trasformerai in te stesso, ma sono io che ti trasformo in me. Ciò significa: il cibo corporeo che consumiamo viene assimilato dal corpo, diventa esso stesso un elemento costitutivo del nostro corpo. Ma questo pane è di un altro tipo. È più grande ed è sopra di noi. Non siamo noi che lo assimiliamo, ma lui che assimila noi, rendendoci conformi a Cristo, in un modo come dice Paolo diventiamo membra del suo corpo, una cosa sola in lui. mangiamo tuttidella stessa persona, e non solo della stessa cosa; in questo modo, siamo tutti strappati al nostro individualismo chiuso, per essere inseriti in uno più grande. Siamo tutti assimilati a Cristo e così, mediante la comunione con Cristo siamo anche uniti tra di noi, diventiamo identici, una sola comunione in lui, membra gli uni degli altri. Comunicare con Cristo è, in sostanza, anche comunicare gli uni con gli altri. Non siamo più fianco a fianco, ciascuno per sé, ma tutti coloro che condividono sono per me «osso delle mie ossa e carne della mia carne» (cfr Gen.2, 23). Pertanto, una vera spiritualità di comunione unita alla profondità cristologica ha necessariamente un carattere sociale, come già Henri de Lubac descrisse in maniera grandiosa più di mezzo secolo fa nel suo libro “Cattolicesimo”. Perciò, nella mia preghiera per la comunione devo, da un lato, guardare tutto Cristo, lasciarmi trasformare da Lui, lasciarmi eventualmente anche bruciare dal suo fuoco che mi avvolge. Ma proprio per questo, devo anche tenere sempre ben presente che in questo modo mi unisce organicamente a qualsiasi altro comunicante con quello accanto a me, che magari non mi è simpatico; ma anche con ciò che è lontano, in Asia, Africa, America o altrove. Diventando tutt’uno con lui, Devo imparare ad aprirmi in quella direzione ea mettermi in gioco in quella situazione: questa è la prova dell’autenticità del mio amore per Cristo. Se sono unito a Cristo, sono unito insieme all’altro, e questa unità non si limita al momento della comunione, che solo qui comincia e diventa vita, carne e sangue nella vita quotidiana del mio essere con l’altro e con l’altro. In tal modo, anche la realtà individuale della mia comunicazione e l’essere della vita della Chiesa sono inscindibilmente legati tra loro. La Chiesa non è nata come semplice federazione di comunità. Nasce dall’unico pane, dall’unico Signore ed è da Lui fin dall’inizio e ovunque una e unica, l’unico corpo che deriva da un solo pane. Lo diventa non per un governo centralista, ma per un possibile centro comune per tutti, perché trae continuamente origine da un solo Signore, che l’ha creata mediante un solo pane e un solo corpo. Pertanto, la loro unità ha una profondità maggiore di quella che può raggiungere qualsiasi altra unione umana. Proprio quando l’Eucaristia è compresa in tutta l’interiorità dell’unione di ognuno con il Signore, essa diventa anche sacramento sociale al più alto grado. I grandi santi sociali, in realtà, sono stati anche grandi santi eucaristici.
Vorrei citare solo due esempi del tutto occasionali. Innanzitutto la figura amabile di San Martino de Porres, nato nel 1569 a Lima (Perù), figlio di madre afroamericana e di un nobile spagnolo. Martinho viveva l’adorazione del Signore presente nell’Eucaristia, trascorreva intere notti in preghiera davanti al Crocifisso, mentre di giorno guariva instancabilmente i malati, e si dedicava alle persone socialmente diseredate, alle quali si sentiva vicino per la sua origine, essendo mulatto. L’incontro con il Signore, che si è offerto per noi dalla croce e, mediante l’unico pane, ci ha resi membra di un solo corpo, si è coerentemente tradotto in servizio ai sofferenti, cura dei deboli e dei dimenticati. Nel nostro tempo, tutti hanno davanti agli occhi l’immagine di Madre Teresa di Calcutta. Si è aperto, ovunque, le case delle sue sorelle al servizio dei moribondi e degli emarginati, la prima cosa che chiedeva era un posto per il tabernacolo, perché sapeva che solo da lì poteva venire la forza per questo servizio. Chi riconosce il Signore nel Tabernacolo, lo riconosce anche in chi soffre e nel bisogno; appartiene a coloro di cui dirà il giudice del mondo: avevo fame e mi avete dato da mangiare; avevo sete e mi avete dato da bere; ero nudo e mi hai vestito; Mi sono ammalato e mi hai visitato; Ero in prigione e tu sei venuto da me avevo sete e mi avete dato da bere; ero nudo e mi hai vestito; Mi sono ammalato e mi hai visitato; Ero in prigione e tu sei venuto da me avevo sete e mi avete dato da bere; ero nudo e mi hai vestito; Mi sono ammalato e mi hai visitato; Ero in prigione e tu sei venuto da me(Mt 25, 35).
Vorrei anche, molto brevemente, ricordare un secondo testo molto importante del Nuovo Testamento sulla parola comunione (koinonia), che si trova all’inizio della Prima Lettera di Giovanni (1,3-7). Giovanni parla anzitutto dell’incontro con la Parola che si è fatto uomo, che gli è stata concessa: può dire che trasmette ciò che ha visto con i suoi occhi, che ha toccato con le sue mani. Questo incontro gli ha fatto dono di una “koinonia” comunione con il Padre e con suo Figlio Gesù Cristo, ed è diventata una vera comunione. Questa comunione con il Dio vivente, così ci dice, pone l’uomo nella luce. I suoi occhi sono aperti ed egli vive nella luce, cioè nella verità di Dio, che si esprime nell’unico, nuovo comandamento, che tutto racchiude nel comandamento dell’amore.
E così la comunione con la “parola di vita” diventa vita giusta, amore; diventa anche comunione reciproca: «Se camminiamo nella luce come egli è nella luce, abbiamo comunione gli uni con gli altri» (1 Gv 1,7 ). In questo modo il testo ci mostra la stessa logica di Communio che avevamo già trovato in Paolo: la comunione con Gesù diventa comunione con Dio stesso, comunione con la luce e con l’amore; diventa la vita giusta, e tutto questo ci unisce gli uni agli altri nella verità. Se consideriamo la comunione in questa profondità e ampiezza, allora abbiamo qualcosa da dire al mondo.
3. Solidarietà
Veniamo infine alla terza parola chiave: “solidarietà”. Mentre le prime due parole chiave, eucaristia e comunione, sono state prese dalla Bibbia e dalla tradizione cristiana, questa parola ci è giunta dall’estero. Il concetto di “solidarietà” come ha mostrato inizialmente Mons. Cordes, sviluppatosi nell’ambito del primo socialismo da parte di p. Lerou (morto nel 1871), in contrasto con l’idea cristiana dell’amore, come risposta nuova, razionale ed efficace al problema sociale. Karl Marx spiegò che il cristianesimo aveva avuto un millennio e mezzo di tempo per mostrare le sue capacità e che ora la sua inefficienza era stata sufficientemente dimostrata; quindi, era necessario seguire nuove strade. Per decenni molti hanno pensato che il modello socialista, sintetizzato nel concetto di solidarietà, fosse finalmente la via per raggiungere l’uguaglianza per tutti, per sradicare la povertà e instaurare la pace nel mondo. Oggi possiamo osservare il panorama di rovine lasciate da una teoria e pratica sociale che non considera Dio. È innegabile che il modello liberale dell’economia di mercato, specialmente là dove è stato guidato e corretto sotto l’influenza delle idee sociali cristiane, ha ottenuto un grande successo in alcune parti del mondo.
È molto triste il bilancio che ha lasciato, soprattutto in Africa, l’opposizione dei blocchi di potere e degli interessi economici. Dietro l’apparente solidarietà dei modelli di progresso si nascondeva, e spesso c’è ancora, la volontà di ampliare la portata del proprio potere, dell’ideologia, del dominio del mercato. In questo contesto si è perpetrata la distruzione di antiche strutture sociali, distruzione di forze spirituali e morali, le cui conseguenze devono risuonare nelle nostre orecchie come un unico lamento. No, senza Dio le cose non possono andare bene. E siccome ci ha mostrato il suo volto solo in Cristo, ha pronunciato il suo nome, è entrato in comunione con noi, di conseguenza e finalmente senza Cristo non c’è speranza. Non si può negare che anche i cristiani nei secoli passati si sono macchiati di gravi colpe. schiavitù, la tratta degli schiavi, resta un capitolo oscuro; mostrare quanto poco i cristiani fossero cristiani e quanto fossero lontani dalla fede e dall’amore del Vangelo, dalla vera comunione con Gesù Cristo. D’altra parte, è stato l’amore pieno di fede e l’umile disponibilità al sacrificio di tanti sacerdoti e suore, che ha fatto da contrappeso e ha lasciato un’eredità di amore, che, anche se non è riuscito a sradicare l’orrore dello sfruttamento , nonostante tutto, lo ha sollevato. Su questa testimonianza possiamo costruire, su questo cammino possiamo andare oltre. In questo senso, il concetto di solidarietà negli ultimi decenni, grazie soprattutto agli studi etici del Santo Padre, è stato lentamente trasformato e cristianizzato, così che ora possiamo giustamente avvicinarlo alle due parole chiave eucaristia e comunione. In questo senso, Solidarietà significa sentirsi responsabili gli uni degli altri, i sani per i malati, i ricchi per i poveri, i continenti del Nord per il Sud, consapevoli della responsabilità reciproca e quindi consapevoli che quando diamo, riceviamo e che possiamo dare sempre e solo di ciò che ci è stato dato e quindi non appartiene solo a noi stessi. Oggi ci rendiamo conto che non basta trasmettere competenze tecniche, conoscenze e teorie scientifiche, e nemmeno la prassi di certe strutture politiche. e che possiamo dare sempre e solo di ciò che ci è stato dato e quindi non appartiene solo a noi stessi. Oggi ci rendiamo conto che non basta trasmettere competenze tecniche, conoscenze e teorie scientifiche, e nemmeno la prassi di certe strutture politiche. e che possiamo dare sempre e solo di ciò che ci è stato dato e quindi non appartiene solo a noi stessi. Oggi ci rendiamo conto che non basta trasmettere competenze tecniche, conoscenze e teorie scientifiche, e nemmeno la prassi di certe strutture politiche.
Tutto ciò non serve, anzi è dannoso, se non si risvegliano le forze spirituali che danno senso a queste tecniche e strutture e ne rendono possibile un uso responsabile. È stato facile distruggere le tradizioni con la nostra razionalità, che ora sopravvivono come sottoculture private della loro sostanza migliore e come tecniche di superstizione che possono danneggiare le persone nel corpo e nell’anima. Sarebbe stato necessario aprire il loro nucleo verso Cristo e portare così a compimento le attese segrete, che sono vive in loro. In questo processo di purificazione e di sviluppo, continuità e progresso si sarebbero incontrati in modo fruttuoso. Laddove la missione ha avuto successo, ha praticamente seguito questa strada e in questo modo ha contribuito a sviluppare le forze della fede, di cui abbiamo tanto bisogno.
Nella crisi degli anni ’60 e ’70, molti missionari erano convinti che la missione, cioè l’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo, non è più opportuna oggi; l’unica cosa che avrebbe ancora senso sarebbe offrire un servizio di sviluppo sociale. Ma come si potrebbe raggiungere lo sviluppo sociale se diventiamo analfabeti rispetto a Dio? In fondo, l’idea implicitamente condivisa che i popoli e le tribù debbano conservare le proprie religioni e che non dobbiamo invaderle con le nostre, non solo dimostra che la fede nel cuore di questi uomini era scemata nonostante la loro grande buona volontà, e che la comunione con il Signore non era più vitale. Se così non fosse, come si potrebbe pensare che sia positivo escludere gli altri? Ma è, in fondo, spesso senza saperlo, un disprezzo per il fatto religioso e non una stima per le altre religioni, come sembra: la religione è considerata nella persona come un residuo arcaico, che dobbiamo lasciargli, ma che in fondo non ha niente a che fare con la vera grandezza del progresso. Ciò che le religioni dicono e fanno, negli ultimi tempi, appare indifferente; sono considerati al di fuori dell’ambito della razionalità e il loro contenuto alla fine non conta nulla. L’ortoprassi che auspichiamo è veramente costruita sulla sabbia. È tempo di abbandonare questo modo sbagliato di pensare. Abbiamo bisogno della fede in Gesù Cristo, perché unisce ragione e religione. In questo modo ci offre criteri di responsabilità. La condivisione a tutti i livelli fa parte della solidarietà tra popoli e continenti: materiale, spirituale, etico e religioso. È evidente che dobbiamo sviluppare ulteriormente la nostra economia, in modo che non abbia come criterio solo gli interessi di un determinato Paese o di un gruppo di Paesi, ma il benessere di tutti i continenti. Questo è difficile e mai completamente realizzato; ci richiede di limitarci e di fare delle rinunce. Ma se sorge uno spirito di solidarietà veramente nutrito dalla fede, allora questo può diventare possibile, anche se sempre imperfetto. La questione della globalizzazione entrerebbe in questo ambito, che non posso affrontare qui. È evidente che oggi dipendiamo tutti gli uni dagli altri. Ma c’è una globalizzazione, che si studia unilateralmente, avendo in mente i propri interessi, e dovrebbe esserci una globalizzazione, in cui ci sentiamo davvero tutti responsabili gli uni degli altri e ognuno porta il peso dell’altro. Tutto questo non può essere fatto in modo neutrale, con riferimento alle sole tecniche di mercato. Per le decisioni sul mercato, le ipotesi sui valori sono sempre decisive. A questo proposito, il nostro orizzonte religioso e morale è sempre decisivo. Se la globalizzazione della tecnologia e dell’economia non sarà accompagnata anche da una nuova apertura delle coscienze a Dio, davanti al quale tutti abbiamo una responsabilità, allora tutto finirà in una catastrofe. Questa è la grande responsabilità che pesa oggi su noi cristiani. Il cristianesimo, partendo dall’unico Signore, dall’unico pane, che vuole farci un solo corpo, ha sempre avuto come obiettivo l’unificazione dell’umanità. Se noi, proprio nel momento in cui si realizza un’unificazione esterna dell’umanità prima impensabile, ci ritiriamo come cristiani e pensiamo che non possiamo e non dobbiamo dare di più, ci carichiamo di gravi colpe. Infatti, un’unità che si costruisce senza Dio o addirittura contro di Lui, finisce come l’esperienza di Babilonia: nella confusione e nella distruzione totale, nell’odio e nell’oppressione di tutti contro tutti.
Conclusione :
Eucaristia come sacramento delle trasformazioni
Torniamo alla Santissima Eucaristia. Cosa accadde realmente la notte in cui Cristo fu consegnato? Ascoltiamo a questo proposito il Canone Romano, cuore dell’«Eucaristia» della Chiesa di Roma: «La vigilia della sua passione, Gesù prese il pane nelle sue mani sante e venerabili, alzò lo sguardo al cielo, per tu, Dio Padre onnipotente con la preghiera di benedizione, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse: “Prendete e mangiatene tutti. Questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi”. E dopo la cena, allo stesso modo, prese tra le mani il prezioso calice santo e venerabile, vi rese grazie con la preghiera di benedizione, lo distribuì tra i suoi discepoli e disse: Prendete questo e bevetene tutti Questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versata per voi e per tutti in remissione dei peccati, fate questo in memoria di me». Per la prima volta, sentiamo la parola transustanziazione. Il pane diventa corpo, il tuo corpo. Il pane della terra diventa il pane di Dio, la “manna” del cielo, con la quale Dio nutre gli uomini non solo nella vita terrena, ma anche nella prospettiva della risurrezione che prepara la risurrezione, anzi, la mette già in moto. Il Signore, che avrebbe potuto trasformare le pietre in pane, che avrebbe potuto risuscitare dalle pietre i figli di Abramo, ha voluto trasformare il pane nel suo corpo, nel suo corpo. Ma è possibile? E come si può fare? Le domande, che il popolo ha posto nella Sinagoga di Cafarnao, non possono essere evitate nemmeno da noi. Lui è lì, davanti ai suoi discepoli, con il suo corpo; come può dire del pane: questo è il mio corpo? Ora è importante prestare molta attenzione a ciò che il Signore ha veramente detto. Non dice semplicemente: questo è il mio corpo; ma, questo è il mio corpo dato per te. Può diventare un dono perché viene offerto. Attraverso l’atto del donare diventa capace di comunicare, come se lui stesso si trasformasse in dono. Possiamo vedere la stessa cosa nelle parole sulla coppa. Cristo non dice semplicemente: questo è il mio sangue; ma questo è il mio sangue versato per te. Dato che è versato, può essere offerto. E ora sorge una nuova domanda: cosa significa “offerto”, “versato”? Capita? Gesù infatti viene ucciso, crocifisso e muore tra i tormenti. Il suo sangue è versato, prima nell’orto degli ulivi per le sofferenze interiori della sua missione, poi con la flagellazione, l’incoronazione di spine, la crocifissione e, dopo la sua morte, con la trafittura del cuore. Quello che accade è soprattutto un atto di violenza, di odio, che tortura e distrugge. A questo punto ci troviamo di fronte a un secondo e più profondo livello di trasformazione: egli trasforma dall’interno l’atto di violenza degli uomini contro di lui in un atto di donazione a favore di questi uomini, in un atto di amore. Lo si riconosce drammaticamente nella scena del giardino degli ulivi. Ciò che ha detto nel Discorso della Montagna, ora lo compie: non contrappone alla violenza la violenza, come avrebbe potuto, ma pone fine alla violenza, trasformandola in amore. L’atto della morte si trasforma in amore. Questa è la trasformazione fondamentale, su cui tutto si basa. È la vera trasformazione di cui il mondo ha bisogno, l’unica che può redimere il mondo. Poiché Cristo, in un gesto d’amore, ha trasformato e vinto ogni forma di violenza, anche la morte è stata trasformata. Rimane eternamente. E così, in questa trasformazione è contenuta la più ampia trasformazione dalla morte alla risurrezione, dal corpo morto al corpo risorto. Se il primo uomo era un’anima vivente, come dice San Paolo, il nuovo Adamo, Cristo, diventerà, con questo evento, lo spirito che dà la vita(1 Cor 15, 45). Il risorto è donazione, è lo spirito che dà la vita e come tale è comunicabile, anzi è comunicazione. Ciò significa che non assistiamo ad alcun addio alla materia, anzi, in questo modo giunge alla sua fine: senza l’evento materiale della morte e del suo interiore superamento, tutto questo insieme di cose non sarebbe possibile. E così, nella trasformazione della risurrezione, Cristo continua a sussistere, ma ora in modo così trasformato che l’essere corpo e il donarsi non si escludono più, ma l’uno implica l’altro.
Prima del prossimo brano, cerchiamo di vedere sinteticamente, ancora una volta, e di comprendere tutto questo insieme di realtà. Al momento dell’ultima cena Gesù anticipa già l’evento del Calvario. Egli accetta la morte di croce e con la sua accettazione trasforma l’atto di violenza in atto di offerta, di effusione di sé (“Il mio sangue deve essere sparso in propiziazione del sacrificio e dell’offerta della vostra fede”, dice Paolo da qui e riguardo al suo imminente martirio: Phil2, 17). Nell’Ultima Cena la croce è già presente, è accolta e trasformata da Gesù. Questa prima e fondamentale trasformazione attira a sé il resto: il corpo mortale si trasforma in corpo di risurrezione: in «spirito vivificante». Da qui, diventa possibile la terza trasformazione: le offerte del pane e del vino, che sono doni della creazione e insieme frutto del lavoro umano e della “trasformazione” della creazione, vengono trasformate, così che in esse è presente il Signore stesso. dona se stesso, la sua offerta, se stesso perché èSole. L’atto di dare non è cosa sua, ma lui stesso. Da qui lo sguardo è proiettato su altre due trasformazioni, che sono essenziali nell’Eucaristia fin dal momento della sua istituzione: il pane trasformato, il vino trasformato, in cui il Signore stesso si offre come spirito che vivifica, è presente per trasforma noi uomini, perché diventiamo con lui un solo pane e poi un solo corpo con lui. La trasformazione dei doni, che è solo la continuazione delle trasformazioni fondamentali della Croce e della Risurrezione, non è il punto di arrivo, ma, a sua volta, solo un inizio. Lo scopo dell’Eucaristia è la trasformazione di coloro che la ricevono in autentica comunione con la loro trasformazione. E così il fine è l’unità, la pace, che noi stessi come individui separati, che viviamo l’uno accanto all’altro, diventiamo con Cristo e in Cristo organismo di donazione, per vivere in vista della risurrezione e del mondo nuovo. Diventa così visibile la quinta e ultima trasformazione che caratterizza questo sacramento: attraverso di noi, i trasformati, una volta diventati un solo corpo, un solo spirito vivificante, tutta la creazione deve essere trasformata. Tutto il creato deve diventare “una nuova città”, un nuovo paradiso, la dimora vivente di Dio: Dio che è tutto in tutti(1 Cor 15, 28) Paolo descrive così la fine della creazione, che deve prendere forma dall’Eucaristia. Così l’Eucaristia è un processo di trasformazione, in cui siamo coinvolti, potenza di Dio per la trasformazione dell’odio e della violenza, potenza di Dio per la trasformazione del mondo. Preghiamo allora perché il Signore ci aiuti a celebrarla ea viverla così. Preghiamo perché trasformi noi e, insieme a noi, il mondo, nella nuova Gerusalemme.